LA FUNZIONE DELL’ATTORE: PORTARE LA PAROLA

DI FRANCISCO MELE

L’AUTORE SI ISPIRA IN NOI PER DAR VITA AI SUOI PERSONAGGI, E NOI LE IMITIAMO, PER COSTRUIRE IL PUZZLE DELLE NOSTRE IDENTITA’, E DI CREDERCI DI ESSERE ILLUSORIAMENTE PADRONI DI NOI STESSI.

LA MIMESI E L’IMMAGINAZIONE CREATIVA


dal libro “SI FA CHE SI ERA Orazio Costa, dal gioco al teatro”DI MARICLA BOGGIO

SAGGI DI FRANCISCO MELE E DI PIER PAOLO PACINI

PRESENTAZIONE DI MARCO GIORGETTI

BULZONI EDITORE, ROMA 2021


lo studio del metodo mimesico di Orazio Costa alla luce della fenomenologia, della psicanalisi e delle scoperte nel campo delle neuroscienze 

Guardare la luce dietro il sole

In “Tempo e racconto” Paul Ricoeur[1] elabora i tre momenti della mimesi intesa, nella linea costiana, come immedesimazione, piuttosto che copia distorta dall’idea o imago in Platone o mimesi come imitazione dell’azione espressa da Aristotele nella sua Poetica.

Il filosofo francese cerca di integrare il concetto di tempo senza narrazione in Sant’Agostino e la costruzione dell’intrigo o mythos in Aristotele che prescinde dal concetto del tempo.

L’ermeneutica come scienza dell’interpretazione si propone di “ricostruire l’insieme delle operazioni grazie alle quali un’opera si eleva sul fondo opaco del vivere, dell’agire e del soffrire per essere data dall’autore a un lettore che la riceve e in tal modo muta il suo agire (…). Un’ermeneutica è preoccupata di ricostruire l’intero arco delle operazioni grazie alle quali l’esperienza pratica si dà delle opere, degli autori e dei lettori[2]”. La mimesi I rappresenta il vissuto e l’esperienza precomprensiva: essa in sintesi è l’esperienza pratica.  Il secondo momento della mimesi – mimesi II – riguarda l’elaborazione da parte dell’artista, dell’autore o del poeta, e si pone come momento di mediazione tra l’azione pre-comprensiva e l’atto interpretativo di lettura o di rappresentazione: per quanto attiene al nostro ambito, esso riguarda l’atto teatrale. In questa prospettiva la funzione dell’attore diventa fondamentale per innalzare attraverso il suo apporto nell’opera drammaturgica il fondo opaco del vivere offrendo agli spettatori un momento di consapevolezza dell’esistenza. Nella sua funzione di “medium” tra lo spettatore e l’autore, l’attore deve essere consapevole di questo ruolo significativo nel contesto della società. Per questo la sua preparazione deve essere approfondita come persona che sia capace di donarsi senza perdere sé stesso, arrivando a diventare uomo nella sua completezza espressiva, e successivamente diventare strumento delle parole altrui, attraverso la loro interpretazione.

Il terzo elemento della mimesi secondo Ricoeur è fondamentale perché si conclude in questo modo il ciclo che permette all’opera letteraria di esistere. Un testo letterario che non viene letto, o un testo teatrale che non viene rappresentato si colloca in quello spazio di attesa di essere scoperto portando al lettore o spettatore un modo di guardare il mondo da parte dell’autore.

L’atto teatrale è analogo all’atto del sacerdote che diventa il “medium” in cui nel momento della consacrazione il pane diventa il corpo di Cristo. Nella scena teatrale si tratta del processo di transustanziazione in cui l’attore diventa personaggio, ma a differenza dell’ostia e del vino consacrati, l’attore dopo il rito del teatro, come il prete dopo la messa, torna ad essere sé stesso.

Una lettura che tiene conto del divenire altro non può prescindere dagli apporti della mistica intesa come attività in cui un soggetto lascia sé stesso per diventare tutt’uno con lo Spirito ovvero con il respiro dell’Essere.

Lavorando alla mimica costiana si può tracciare una ricerca profonda di un metodo che va oltre a una tecnica o a una cura del corpo e anche a un’interpretazione in cui l’imitazione gioca un ruolo importante. Quando Orazio Costa afferma che prima che un attore si deve creare un uomo, intende riportare l’antica sapienza della grecità, del cristianesimo e dell’oriente senza aver elaborato delle basi antropologiche rispetto a tale mimesica. Questo studio si può tentare partendo dalle sue lezioni nei luoghi in cui ha insegnato.

La filosofia greca, secondo Martha Nussbaum, deve tutto alla tragedia. I drammaturghi greci hanno messo in scena i conflitti in cui la Tiche – la fortuna –   e il Daimon – il destino –  giocano le loro partite e decidono le sorti degli uomini. I filosofi hanno cercato di meditare e di riflettere su questi temi che ancora oggi sono attuali. Autori come Filone di Alessandria e San Paolo stesso hanno cercato di costruire un ponte tra cultura greca e cultura ebraica senza dimenticare l’influenza egizia: esso viene a impostare un modello di uomo che non può prescindere da queste basi fondanti del Sé. 

Alla fine dell’Ottocento, dopo la conquista dell’India da parte degli europei, viene riconosciuta la sapienza millenaria anche della sua cultura. In diversi campi, dalla scienza alla filosofia alla teologia alla letteratura, sono tanti gli autori che hanno cercato di collegare le culture più diverse; e Orazio Costa, nel suo “Viaggio in India[3]” cerca di articolare tutte queste culture. 

Jean-Yves Leloup, filosofo, psicologo e teologo, scrive che “il terapeuta non è un soggetto che si presume sappia, ma un soggetto che si presume ascolti”.  La formazione del terapeuta è questo difficile e lungo percorso nell’apprendere ad ascoltare. Deve saper ascoltare la natura, decifrare l’albero, la nuvola per intendere meglio il Logos che informa tutte le cose, essendo il principio della creazione. Nel suo studio Filone di Alessandria ci ha lasciato una descrizione circa la fraternità chiamata “dei Terapeuti” o “Terapeuti del deserto”. “Per Filone – scrive Leloup –  ascoltare una forma sensibile qualunque significa sempre percepirla come eco di una voce più silenziosa e più alta. Il suo orecchio, incollato alle cortecce ed ai muschi del mondo, sente venire il passo di Dio. La natura è il corpo del Logos, l’involucro carnale della parola increata, della quale dobbiamo far risuonare in noi il silenzio, silenzio che ci condurrà verso i portici di abisso che circondano ‘ il solo Essere’ quando il Logos non parla che a sé stesso o alla propria sorgente, non prende forma; è soltanto quando si volge verso l’Altro o l’altrove, che diviene mondo e si fa carne”[4].

Attraverso il Logos il mondo non è Dio, ma è in Dio,

scrive Leloup.

La funzione del Terapeuta sarebbe quella di ascoltare il pensiero di Dio che si esprime nella creazione. Quando un soggetto riesce ad ascoltare la natura, la lettura della natura, ovvero le scritture e le leggi della mente e dei sentimenti, può iniziare il percorso verso la salute mentale. Sintonizzare questi livelli fa parte della ricerca del Terapeuta che sarà in grado poi di poter ascoltare e sostenere l’angoscia dell’altro senza soccombere alla propria angoscia.  Inoltre la salute deve essere intesa come la ricerca dell’armonia tra la parola e il pensiero, fra la parola e la vita, fra il contenuto e la forma. Questo modo di agire e di meditare è un esercizio sui mali che affliggono l’uomo.

Attraverso la mimesi costiana, il soggetto si incontra con l’Essere inteso non come un super-essere, ma come l’essere che contiene tutti gli esseri, e anche attraverso l’esercizio preparare il terreno in cui l’Essere può raccogliersi e riposare. La mimesi rappresenta anche un esercizio di conoscenza particolare per superare l’ignoranza del vivere. Leloup scrive che l’ignoranza non è mancanza di sapere, ma di sapienza. E la Sapienza “cerca un luogo per il suo riposo”.

NOSTALGIA DI FAMIGLIA

NOSTALGIA DI FAMIGLIA

“Amarsi male. Quello che resta della famiglia in una società post-nevrotica”

di Francisco Mele

PUBBLICATO in In-dipendenza: un percorso ver l’autonomia.

a cura di Teresa Albano e Lolita Gulimanoska. Premessa di Silvia Mazzoni.

Volume II- Manuale per la cura e la prevenzione delle dipendenze

FrancoAngeli, Roma 2007.

1.1.Psicoterapia familiare

Introduzione

Nei primi anni del Novecento Freud elabora il concetto di complesso di Edipo, mettendo in risalto il conflitto padre-figlio e l’attaccamento/differenziazione con la madre. Il padre viene vissuto da parte del figlio come il rivale che occupa un potere che lui, figlio, vorrebbe avere; questo conflitto, se non viene superato, rappresenta la genesi di tante nevrosi e addirittura di alcune forme di psicosi. Nella società post-nevrotica1, dopo la caduta della parola del padre2, in un contesto di incertezza il padre scompare come rivale-potere per diventare il fratello-amico-rivale, e quindi non è più colui che impedisce al figlio di godersi i beni appartenenti a lui padre-padrone, ma è lui stesso che incita al godimento mostrando il suo attaccamento alle cose accessibili al figlio, e che al figlio e non a lui, sono adatte.

Il concetto di complesso di Edipo risponde alla struttura familiare borghese che si era affermata tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Nella società che ho definito post-nevrotica, il conflitto edipico viene rovesciato, non è più il figlio a vivere il conflitto con il padre, bensì è il padre che vive il figlio come rivale; inoltre, secondo René Girard3, il conflitto di rivalità-mimetica che si innesca fra padre e figlio è simile a quello che accade fuori dal sistema familiare.

Nella società post-nevrotica 4 ,

a) i ragazzi rimangono fino a tarda età in casa dei genitori, non solo per questioni economiche;

b) i figli non entrano in pieno nel sistema produttivo; vivono in costante precarietà dal punto di vista del lavoro e/o degli affetti; questo stato di precarietà e insicurezza non li aiuta a sviluppare la stima di sé né a difendere i propri diritti e meno che mai i diritti degli altri e si traduce in una indifferenza sociale nei riguardi delle persone svantaggiate;

c) l’incertezza e lo stato di precarietà creano continui rimandi rispetto alle decisioni fondamentali per costruire un percorso di vita autonomo;

d)un bambino nasce in una famiglia e cresce in una seconda o in una terza famiglia; in queste situazioni di famiglie multiple ricomposte, risulta difficile che egli possa capire a chi debba essere leale, se al padre biologico o al nuovo compagno di sua madre o alla terza compagna del padre e così via. Risulta anche difficile che questo bambino sappia quali siano i suoi nonni, fratelli o fratellastri. E il terapeuta deve riflettere e valutare circa i componenti della famiglia da convocare;
e)un terapeuta deve essere attento ad ascoltare le sofferenze, il vissuto di un figlio che viene trascurato da suo padre il quale si occupa con più interesse dei figli della sua compagna piuttosto che dei suoi figli;

f) si incrementa l’egoismo dei genitori, che dai figli viene vissuto come “mio padre preferisce la seconda moglie che noi suoi figli”;

g)si delinea, quasi contro natura, la rapacità dei genitori dei figli malati di aids la cui pensione di invalidità essi usano per giocare o per divertirsi; molti altri esempi di avidità ed egoismo si verificano in sempre maggior numero da parte di genitori nei confronti dei figli;

h) in un contesto di precarietà, anche gli affetti sono precari e quindi l’unica cosa sicura rimane il rapporto figlio-madre o figlio-padre;

i) si verificano le patologie della dipendenza e la grande paura del futuro da parte dei ragazzi; la sensazione di rimanere sempre in bilico fra adolescenza e maturità, condivisione e abbandono, ragione e follia, ha portato ad accrescere i casi di organizzazione di personalità al limite o personalità borderline;

j) nelle stesse persone convivono atteggiamenti contradditori, la scissione fra mondo privato e sfera pubblica, atteggiamenti che non provocano conflitti morali; situazione che si possono definire come la “doppia vita” di ognuno;

k) è aumentato il livello di violenza all’interno della famiglia, si verifica un incremento dei “delitti in famiglia”; la tossicodipendenza, l’anoressia, la violenza verbale o fisica, costituiscono forme diverse di azioni auto e/o eteroaggressive.

Nel contesto della società post-nevrotica ci si può interrogare se sia ancora valida la terapia familiare, in quanto risulta sempre più difficile mettere assieme genitori e figli, e tantomeno riunire le tre generazioni, nonni, genitori, figli: viene meno allora lo schema trigenerazionale usato da certe correnti di terapia familiare. Questa difficoltà nel mettere insieme un intero nucleo familiare ha dato origine alla terapia individuale sistemico-relazionale.

Il concetto fondamentale riguarda la triade individuo-famiglia-società, perché anche se si è modificata la struttura familiare, comunque è valido lavorare con la famiglia nelle diverse conformazioni che essa è andata assumendo, soprattutto quando si deve affrontare la terapia delle dipendenze patologiche in tutte le loro variazioni.

La teoria che ha consentito di raggiungere un maggior successo e anche di comprendere il fenomeno studiato è quella sistemico-relazionale.

Considerare la famiglia come un sistema ha significato spostare l’attenzione dall’individuo singolo al sistema familiare o sociale; in questa concezione il sintomo acquista un diverso significato, non è più un problema individuale, bensì il risultato di un conflitto intersoggettivo.

Nei casi di dipendenze patologiche, se non si lavora con il sistema familiare la terapia individuale o in comunità terapeutica rischia di essere vanificata quando il soggetto torna ad interagire con la propria famiglia.

A. La cornice teorica della terapia familiare

Il filosofo e sociologo Jurgen Habermas distingue tre tipi di scienze:

– le discipline empirico-analitiche, caratterizzate dall’interesse per l’efficacia e orientate all’agire strumentale (manipolazione dell’oggetto di studio);

– le scienze storico-ermeneutiche, interessate alla comprensione del senso e rivolte all’intesa comunicativa;

– le scienze critiche, orientate all’emancipazione del soggetto.

La psicologia, a quale scienza appartiene?

La teoria sistemico-relazionale ha cercato di integrare le due prime prospettive; la teoria sistemica deve molto allo sviluppo della biologia, nonché alle scoperte nel campo della fisica. Jean Piaget è stato uno dei precursori della ricerca finalizzata a conciliare i due tipi di scienze. Edgar Morin si propone in tutta la sua opera di evidenziare la totalità del sociale che è presente nelle scienze empirico-analitiche e quanto di queste è presente nelle scienze umane.

Nello stesso periodo in cui stavano sviluppandosi questi studi, la Scuola di Francoforte, a partire dai suoi iniziatori Marcuse, Fromm, Adorno, fino ad Habermas e a Honneth, ha cercato di costruire una scienza sociale critica, integrando le discipline storico-ermeneutiche come la psicanalisi, alla sociologia critica; quest’ultima tende a mettere in evidenza i fattori costrittivi a livello sociale e a livello individuale che impediscono che la persona si emancipi dai condizionamenti materiali e simbolici.
La grande rivoluzione scientifica del Novecento è costituita dalla svolta linguistica, che ha attraversato tutti i campi del sapere. Lo studio del linguaggio ha permesso di integrare sfere apparentemente svincolate fra loro.

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L’odio-social e l’ Io covizzato

GLI ODIANTI, QUANDO L’ODIO è Più FORTE DELL’AMORE

Web: Mele (Ipu), ‘odio social? L”io covizzato’ porta a guerra di tutti contro tutti’

ADNKRONOS

01 ottobre 2021 | 17.49

LETTURA: 1 minuti

“L’odio social, la tendenza a partire all’attacco a prescindere, a demonizzare chi la pensa diversamente è un fenomeno che ha assunto proporzioni pervasive: ci troviamo in una situazione ben prefigurata da Thomas Hobbes, del ‘tutti contro tutti’ e la pandemia ha acuito fortemente una tendenza in atto da tempo, con effetti devastanti dal punto di vista sociale. E’ qualcosa che ha a che vedere insieme con la psico-politica e con la sociologia”. Lo dice all’Adnkronos il professor Francisco Mele, psicologo, docente presso l’Istituto universitario progetto uomo, autore da ultimo di un saggio sull”Io covizzato”.

“La tendenza la faccio risalire -spiega- alla continua competizione come genesi del conflitto sociale, che porta ad una escalation della violenza espressiva, senza che se ne calcoli l’effetto, al punto che chi attacca finisce a sua volta travolto da attacchi ancor più virulenti. Un meccanismo che si innesca anche per cose secondarie, non certo importanti, come del resto accade nelle coppie. E’ come se in quel dato momento fosse in gioco il mio essere nel mondo”.

“Non a caso parlo di ‘Io covizzato’: con la pandemia si è accresciuta la sfiducia reciproca e ciascuno sceglie il suo nemico”, prosegue il professore, che, nel saggio “Il terzo cervello – Il Sé relazionale” ha analizzato un altro aspetto: “In questo ambito esiste il principio mimetico, che opera come forza di gravità, che attira e respinge i corpi: se vedo qualcuno arrabbiato, per rispecchiamento, mi arrabbio ancor di più…”. Se questa è la diagnosi, quale può essere la terapia? “Che ci fosse qualcuno in grado di dire, per la sua autorevolezza e autorità riconosciute, che bisogna smetterla di tentare di affermare se stesso attaccando l’altro”.

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In filosofia il Leviatano (Leviathan) è un’opera di filosofia politica scritta da Thomas Hobbes nel 1651. Il Leviatano rappresenta simbolicamente lo Stato come un grande corpo le cui membra sono i singoli cittadini. Tale è il senso della copertina del trattato che raffigura il Leviatano contenente nei pezzi del suo vestito altrettanti cittadini-sudditi. Tale opera è considerata la teorizzazione e l’atto costitutivo dello Stato assoluto moderno. L’autorità dello Stato è pari alla porzione di libertà individuale che ognuno gli delega con la rinunzia, per vivere in pace, ad esercitare i corrispondenti diritti collegati a tale libertà. (WIKIPEDIA)

IL WEB si propone in molte situazioni come un vero Leviatano moderno, un mostro che sa tutto di ciascuno di noi. Ci condiziona senza sapere come ci influenza e modifica il nostro Sé. Sa tutto di noi, anticipa e modifica i nostri bisogni ed indirizza i nostri desideri. Liberamente cediamo la nostra libertà. Invece di trovare la pace, il riconoscimento, il rafforzamento della propria autostima, in realtà, Il Leviatano può facilmente inghiottire e gettare nell’ombra i suoi sudditi che si affidano ciecamente ai suoi dettati. Dal punto di vista della Psicopolitica tanti politici, come gli artisti o gli sportivi, temono la scomparsa e la paura di essere dimenticati e diventare anonimi. Questa paura influenza anche l’invidia, la rivalità diventando in questo modo il combustibile infiammabile che mantiene vivo l’odio sociale.

L’IDENTITA NARRATIVA SECONDO RICOEUR

  

                                          MEMORIA E 0BLIO NELLA FAMIGLIA

di Francisco Mele

Ho cercato di applicare nell’ambito familiare  i concetti di memoria e oblìo sviluppati in più scritti da Paul Ricoeur.

Quando in un viaggio che ho definito “spirituale” sono arrivato alla casa di Paul Ricoeur fuori Parigi, il grande filosofo mi ha accolto con cortesia affettuosa; lo avevo già conosciuto a Roma, in occasione di un Convegno universitario dove mi era stato presentato da Francesca Brezzi, sua discepola che nel suo corso di Filosofia morale gli aveva dato un posto di preminenza. Ricoeur venne ad accogliermi sulla soglia che dava su di un grande giardino; sorrideva nell’invitarmi ad entrare. “Questa casa era stata di Emanuel Mounier – disse con un tono di amarezza e di rimpianto –,  ed ora che lui non c’è più è diventata la mia; e la strada si chiama Henri Marrou, uno storico di fama, un altro grande amico, ormai anche lui non c’è più”.  Mounier aveva fondato e diretto la rivista di studi filosofi e cristiani “Esprit”, a cui Ricoeur stesso aveva più volte collaborato. Nel vecchio filosofo si avvertiva l’accettazione del trapasso, e l’importanza dei ricordo di coloro che con lui e nella stessa linea di pensiero avevano per decenni portato avanti in mezzo a contrasti e difficoltà l’idea della dignità della persona. Proprio agli inizi della pubblicazione di “Esprit”, Ricoeur era stato fatto prigioniero dai tedeschi e mandato in un campo di lavoro in Germania, com’era accaduto anche al filosofo Emmanuel Lévinas.  Quando andai a trovarlo, Ricoeur stava ultimando “La memoria, la storia, l’oblio”, in cui il tema del perdono, già da lui più volte sviluppato, costituisce un punto fondamentale del libro, in cui il legame fra memoria, storia e oblìo è implicito. Due domande oggi mi vengono alla mente, che vorrei fargli, e di cui non ho trovato risposta in nessuno dei suoi scritti: il racconto dettagliato della sua prigionìa, le ragioni della mancanza di odio nei confronti dei suoi carcerieri. E un’altra domanda, sulle ragioni per cui alla fine della sua vita si occupa del tema del ricordare, dell’oblìo e del perdono. Sarà stato questo un processo di sublimazione di un’esperienza dolorosa, che è stato possibile trasferire dal piano dell’esperienza personale a quello del racconto, ma visto e analizzato in terza persona? Perché tanti che sono stati prigionieri, durante la vecchiaia vengono tormentati da ricordi penosi e talvolta insopportabili, come nel caso di Primo Levi e di Bruno Bettelheim, che non hanno retto al peso del ricordo? Nei suoi testi Ricoeur non dimentica mai i suoi maestri di pensiero, riconosce il debito; allo stesso modo vorrei rendere il mio omaggio a Lui, che mi ha sostenuto da quando – sono ormai trent’anni – ho cominciato a studiare i suoi scritti, sempre interlocutori e guida. 

Paul Ricoeur distingue fra memoria individuale e memoria collettiva. Analizza le patologie che, partendo dagli studi di Freud, avvengono sulla memoria. Ricoeur prende due testi di Freud; “Ricordare, ripetere e rielaborare” e “Lutto e melanconia”. Freud incontra il principale ostacolo a interpretare i ricordi dei pazienti nel meccanismo di coazione a ripetere, che riguarda un’azione che impedisce il ricordo. Scrive Freud: “Il paziente riproduce quegli elementi (dimenticati) non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente, senza rendersene conto”. Ci sarebbe allora un forte legame fra coazione a ripetere e resistenza; il lavoro dell’analisi sarebbe quello di aiutare i pazienti a rimemorare invece di agire. In sintesi, ci sarebbe un lavoro della memoria. Questo fenomeno Freud lo scopre nella sua analisi della traslazione, perché è nella traslazione che il soggetto ripete un’azione inconsapevolmente invece di ricordare l’evento accaduto. In quel periodo – 1914 – Freud  sosteneva ancora il concetto di ricordo traumatico, che poi viene sostituito e ampliato quando elabora il concetto di realtà psichica, nel senso che si può ricordare qualcosa che non è avvenuto mai nella realtà, ma che è stato immaginato dal soggetto. Il ricordo di una scena che fa parte di una fantasia può avere un effetto sulla persona con una forza maggiore ad un fatto avvenuto nella realtà. Ma anche il sintomo di un paziente, come lo era la paralisi di un braccio di un’isterica, rappresenta un documento di qualcosa che è avvenuto nel passato e che è stato dimenticato dal paziente, ma che sopravvive attraverso, ripeto, il sintomo.

In “Lutto e melanconia” si verifica anche qui un lavoro psichico che Freud definisce “il lavoro del lutto”. Egli scrive: “Il lutto è invariabilmente la reazione alla perditadi una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la Patria ad esempio, o la libertà, o un ideale e così via”. In alcuni pazienti sorge la melanconia invece del lutto. Nel primo saggio, invece del ricordo c’era il passaggio all’atto; in questo, invece del lutto si trova la melanconia. Nel lutto non c’è disturbo di personalità, prevale l’esame di realtà, nel senso che l’oggetto amato non c’è più, e la libido si ritira dall’oggetto perduto. Nella melanconia invece il soggetto rimane attaccato all’oggetto, con molta difficoltà ad accettare la realtà della perdita; il mondo per il paziente rimane vuoto e impoverito, appaiono sentimenti di autoaccusa, predominano i sensi di colpa. Freud si domanda se questi rimproveri rivolti a se stesso non mascherino i rimproveri fatti all’oggetto d’amore.

Nel lavoro del lutto si produce un distacco fra presente e passato; la persona amata perduta appartiene al passato, il lavoro del lutto dovrebbe finire con la riconciliazione con l’oggetto perduto, quindi è possibile allora ricordare “la memoria felice”, colui che se ne è andato; l’esperienza vissuta con quella persona rimane staccata dal presente e quindi apre la tensione verso il futuro, nel senso che il soggetto riprende il suo rapporto con la realtà e con la vita. A proposito della vita, per Ricoeur l’essere-per-la-vita sostituisce il concetto heideggeriano l’essere-per-la-morte. Il processo di riconciliazione con il passato che a livello individuale e familiare riguarda la riconciliazione con i propri genitori, fratelli, e altre persone significative diventa un compito fondamentale per non rimanere invischiati in lotte che impediscono al soggetto di riprendere il rapporto con la realtà e di riprogettare la propria esistenza.

Un figlio che non ha risolto il conflitto con il proprio padre avrà seri problemi per poter gestire il ruolo di padre con i propri figli.

Nel caso di Margot, tratto da “Farsi male”[1] si individuano alcuni dei concetti sopra evidenziati. La ripetizione, che serve a non ricordare l’episodio traumatico, ma che non lo può cancellare, perché questo episodio torna attraverso il sintomo del vomito che è legato a una perdita, quella della sua amichetta, e l’altro, che è l’intervento negativo della madre che cerca di falsare la realtà. Un episodio mai chiarito nell’infanzia della protagonista ritorna quando la ragazza si trova in viaggio verso la casa dei genitori. In tutti i casi in cui la memoria viene falsata, essa si configura come un grumo di rappresentazioni, affetti, sentimenti, perfino odori, che si riattivano appena uno di essi viene stimolato da qualche situazione presente. Questo grumo che non è stato mai portato sul piano del linguaggio ritorna con la sua forza che, nel caso di Margot, nell’impossibilità di parlare,  lo espelle attraverso il vomito. Il lavoro della terapeuta è stato quello di aiutare la paziente a collegare il sintomo con un evento del passato. Dopodiché Margot riesce a ricordare i fatti e quindi a dare ad essi parola: dopo il racconto la ragazza si sentirà meglio.

La riunione di famiglia

“Siamo partite una mattina presto, in automobile. Da qui in comunità, verso la campagna. I genitori di Margot hanno una casa in collina a pochi chilometri dalla città; gente ricca che sta più all’estero che qui. Aveva telefonato la madre; felice che la figlia stesse meglio, chiedeva se potevano vederla, lei e il padre; erano appena arrivati da Parigi – dove trattano i loro affari – ; c’era anche il figlio, potevano vedere la ‘bambina’? Ho avuto un momento di perplessità; avrei voluto dire ‘no’, perchè Margot stava appena cominciando ad uscire dal suo abituale stato distruttivo, e le serviva tempo per sentirsi sicura e riprendere fiducia…”.

Maria si interrompe; d’impulso aggrappandosi alla propria fragilità prosegue la lettura degli appunti: 

“…e anche noi abbiamo bisogno di tempo per verificare se la nostra utopia può realizzarsi; non basta un’ora, un giorno, un risultato positivo!… Poi ho accettato. Mi faceva pena sentire quella donna ricca, bellissima, elegante, che sembrava avesse avuto tutto dalla vita, supplicare sotto il tono allegro, educatissimo, di vedere una figlia che da un momento all’altro può  ammazzarsi, e lei forse era stata una delle cause della sua disperazione, se non la più importante, la iniziale…  Andiamo dunque, a questa riunione di famiglia, con la scusa che sono arrivati tutti quanti per un lungo week-end…Da mesi Margot  non incontra più nessuno dei suoi; è stata una nostra richiesta per poterla controllare senza condizionamenti; parlando di piccole cose andiamo in mezzo ai boschi per quelle strade tutte curve in salita. Ma via via che ci avviciniano alla casa l’allegria di Margot diminuisce; sembra che più niente la interessi; diventa silenziosa, chiusa in se stessa; ansima, non riesce a respirare, è pallida, la fronte sudata; mi fermo in una radura,  la aiuto a scendere; si appoggia a un albero e vomita; la sostengo, poi la  adagio sull’erba. 

‘La macchina…’, 

si giustifica, tirando finalmente un lungo respiro. 

La assecondo, ma so che non patisce l’automobile; le faccio bere un po’ d’acqua. Dopo un po’ mi dice: ‘Sai a che penso? Alla festa per i miei sette anni…Ero così felice! Un sacco di regali…Tanti bambini venuti a festeggiarmi…Una merenda grandiosa…l’aveva preparata mia madre, tu la conosci…’. 

Io subito: 

‘Posso immaginare!’, 

e ridiamo tutte e due. Poi lei rimane zitta. 

‘Allora? Che cosa mi volevi dire?’. 

‘Non lo so. Mi sono ricordata quella festa. All’inizio era…una sensazione gradevole; poi…mi è venuto da vomitare’. 

‘A che cosa colleghi questo senso di vomito? Cerca di ricordare…’. 

Eravamo abituate a parlare così, tante volte in seduta; lei ricordava qualche cosa e io tentavo di farle collegare i ricordi, le sensazioni; in parecchie occasioni aveva funzionato. Si stropicciava la fronte, come a volerne far uscire i pensieri: 

‘Mah…non lo so…La festa andava avanti bene…Erano tutti allegri…Si facevano dei giochi…Però mancava la mia amica più cara. Claretta non era ancora arrivata…Ogni tanto mi veniva in mente…ed ero sempre più ansiosa; mi domandavo perchè non fosse già lì, con me. A un certo punto mi è venuta l’ansia; non riuscivo a respirare pensando alla mia amica…Allora ho chiesto a mia madre perchè Claretta non arrivava’. 

‘E che cosa ti ha detto?’. 

‘Che aveva dovuto partire. Improvvisamente’. 

‘Improvvisamente! Una bambina!?’ 

Mi pareva una risposta strana. E Margot: 

‘Mia madre ha detto che i suoi genitori si erano trasferiti in un’altra città. Io mi sono sentita tradita. Perchè non dirmi niente? Anche se avessimo abitato in due città diverse, avremmo potuto incontrarci lo stesso…La festa non mi importava più, non vedevo l’ora che finisse’. 

 Margot si era di nuovo interrotta. Il suo volto era arrossato come per febbre; riviveva una situazione già vissuta e soltanto allora scopriva l’influenza che aveva avuto su tutta la sua esistenza. 

‘Giorni dopo ho incontrato la madre di Claretta; aveva l’aria triste, sai come quando si è pianto tanto e non si riesce a piangere più? Mi guardava e non diceva niente. Io ero presa dal terrore. Poi mi ha abbracciata: ‘Non c’è più Claretta. E’ morta…’; a me è venuto da vomitare. Ho odiato mia madre da quel giorno. Non le ho mai detto che l’avevo saputo’. 

‘Potevi chiederle per quale motivo ti aveva nascosto la verità’.

‘Non ci sono riuscita; evitava l’argomento. Dopo qualche tentativo ho rinunciato’. 

Io ho cercato di dirle che forse la madre aveva pensato, in quel modo, di risparmiarle un dolore: 

‘Però non si è resa conto di averti privato della realtà’, 

ho aggiunto; e lei: 

‘Tante volte ha fatto così’. 

Non me ne aveva mai parlato, neanche in seduta; gliel’ho detto. Le era venuto fuori in quel momento; perchè? 

‘Perchè stiamo andando da mia madre?’, 

ha detto lei; rideva, per dare leggerezza a quella riflessione, che era la verità. E io allora:

‘Forse. Ora tante cose le hai capite. Resta il fatto che tu madre ti ha ferito. Volendo pensare al tuo bene, ti ha privato della realtà; poco per volta devi riprendertela, anche se a volte la realtà fa soffrire’. 

Per il resto del percorso Margot non ha parlato più; ma aveva ripreso colore sulle guance  e a un certo punto si è messa a fischiettare.”

Nel percorso che va dalla memoria individuale alla memoria collettiva che Paul Ricoeur realizza partendo dagli studi di Freud in “Ricordo, ripetizione, rielaborazione” e in “Lutto e melanconia” si verifica soprattutto il lavoro del lutto come uno scontro di forze psichiche che cercano di cancellare, manipolare, imporre un’altra versione, o di rimuovere un ricordo di un evento accaduto o immaginato dal soggetto. Secondo l’ipotesi dell’equivalenza, lo stesso meccanismo che corrisponde all’abuso della memoria si verifica a livello della memoria collettiva, analizzando la quale si può arrivare a quella individuale, riscontrandone per analogia gli stessi meccanismi.

Ogni storia personale deve essere letta, compresa e interpretata secondo tre dimensioni, il Sé, il prossimo e il lontano, secondo la terminologia di Paul Ricoeur. Non si può capire un gesto, un’azione, senza tener conto della complessità del mondo interiore, del mondo familiare e di quello istituzionale. Questa triade è intimamente collegata alla triade dell’etica della personalità in Ricoeur. La stima di sé, l’incontro con l’altro all’interno di situazioni giuste. In questa linea il concetto di memoria deve essere intesa non più come la memoria soltanto di un singolo, bensì un intreccio costruito con gli altri. Il logos è secondo me un tria-logos; in ogni logos individuale, quando un soggetto parla, ricorda, immagina, sono presenti l’altro e gli altri. Questi altri costituiscono l’umanità presente nel singolo; non esiste un individuo isolato, dal momento che pensa, patisce, agisce e parla, sono presenti gli altri logoi.

L’identità dipende dalla memoria; senza memoria un soggetto non saprebbe chi è quando dice “Io sono”. Ricoeur differenzia due tipi di identità, il medesimo come medesimezza, e l’ipse come ipseità. L’identità come medesimo riguarda un aspetto immodificabile del soggetto; alcuni lo definiscono “il carattere”; invece l’ipseità è l’aspetto narrativo che si modifica quindi ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé; ma questo mutevole contiene a sua volta un aspetto costante. 

A differenza del medesimo, in cui l’invariante è legato al passato, nella ipseità l’invariante guarda al futuro. L’invariante della ipseità è la promessa; la persona promette di mantenere la parola data; quindi un “vero uomo” è colui che mantiene la sua parola indipendentemente da quanto potrà accadergli, mettendolo in difficoltà circa la promessa formulata.

Secondo Ricoeur la memoria è fragile e soggetta a manipolazioni. Sia il soggetto a livello individuale, sia la comunità manipolano la memoria.

Uno dei tre principi fondamentali dell’etica secondo Agnes Heller è la responsabilità; dire “Io sono responsabile” o “Sono il responsabile” vuol dire che in tale affermazione confluisce la molteplicità del Sé. I politici e i dirigenti delle istituzioni non si assumono spesso le proprie responsabilità; è pressocché impossibile sentire che un politico, ad esempio, dica: “Mi sono sbagliato”, eppure, pur non ammettendo di essersi sbagliati, vogliono “cambiare tutto”. Essi tentano in ogni occasione di agguistare la situazione a proprio vantaggio, lo si evince anche dalle recenti rivelazioni evideenziate dalle numerose intercettazioni telefoniche nelle quali appaiono comportamenti meschini, legati ad interessi personali di bassa lega, anziché eventuali preoccupazioni relative al bene comune o all’espletamento delle proprie mansioni di responsabili di fronte alla comunità.

La manipolazione della memoria pone il problema morale, che non è – come dice Ricoeur – risposnadente alla domanda “Che cosa devo fare?”, bensì “Come vorrei condurre la mia vita?”. La manipolazione della memoria è molto vicina alla manipolazione dell’altro, come l’agire manipolativo di Habermas, molto lontano dall’agire comunicativo dello stesso Habermas. 

Perché si manipola la memoria?  Si tratta di evitare sensi di colpa per azioni commesse in passato, che la coscienza non sopporterebbe nella loro verità? Si manipola la memoria perché si ha paura di una punizione che viene dall’esterno?

Nell’ottica del tria-logos il rapporto con l’altro è sempre un rapporto triadico: Io (il Sé)-Altro-l’Umanità/o Altri. In un determinato rapporto, quando sono sollecito o violento con un altro, lo sono con tutta l’umanità. Il concetto di tria-logos implica l’etica dell’intersoggettività, il Sé, l’altro e l’umanità sono intimamente interconnessi.

In Lévinas – come in Lacan  – si pone il primato dell’Altro. In Ricoeur non c’è né il primato dell’Altro, né il primato del Sé come sosteneva la vecchia filosofia dell’Io.

La costruzione dell’identità appartiene quindi all’intreccio fra il Sé, l’Altro e l’Umanità: quest’ultima non è rappresentata da tutti quanti appartengono alla contemporaneità e che sono vicini al soggetto che sta costruendosi, ma è tutta la Storia costruita con tutte quelle manipolazioni, abusi, ma anche con tutto il patrimonio culturale presente definito da Ricoeur l’”archeologia del soggetto”, ma anche da tutta la storia che vive negli archivi, nei monumenti, nelle opere della letteratura, della musica e delle arti figurative. 

L’etica dell’intersoggettività pone la questione della simmetria e disimmetria dei rapporti umani; c’è il comandamento morale perché nell’uomo si manifesta la violenza. Alle figure del male – scrive Ricoeur – si risponde con il no della morale. Etica e morale, concetti sinonimi, in Ricoeur vengono differenziati: l’etica, definita come la ricerca del bene in Aristotile,  rappresenta l’approccio teleologico – ci sarebbe cioè una tendenza spontanea dell’uomo verso il bene – ; la morale costituisce l’approccio deontologica ispirato a Kant, che è la morale dell’obbligazione. Etica e morale devono essere vagliate dalla giustizia. Il tragico della situazione – direi di ogni situazione  in cui si deve fare una scelta – è che ci sia il rischio di scegliere di fare del male all’altro in quanto ognuno di noi viene spinto dal desiderio che tende al possesso, alla rivalità, e alla eliminazione – talvolta- dell’altro.

Il giudizio morale in situazione – nel senso che in ogni situazione devo scegliere un’azione o devo rispondere all’azione di un altro –, che viene definita come la phronesis ossia la saggezza pratica, significa che in ogni situazione devo mediare fra il principio universale e il particolare. Se sono rigidamente “purista” verso il principio universale, avrò tantissime difficoltà a vivere in società, perché il rischio è di diventare “fondamentalista”, incapace di mediare nei rapporti umani. Se si rinuncia al principio universale e si sceglie l’azione più conveniente al soggetto in quel momento, in realtà si rischia di seguire e di stare dietro agli eventi senza poter intervenire attivamente. 

Le tre figure dell’alterità – sempre secondo Ricoeur – sono il corpo proprio, l’altra persona e la voce della coscienza che risuona come un altro in me stesso. Questa triade impedisce al soggetto di pensarsi come autosufficiente, chiuso in se stesso, capace di farsi da sé. L’etica dell’intersoggettività comprende il riconoscimento reciproco dei soggetti che si trovano in una situazione vis à vis – uno di fronte all’altro – o in situazioni lontane come avviene all’interno delle istituzioni. I rapporti all’interno delle istituzioni sono regolati dalla giustizia che  impedisce la prevaricazione di uno sull’altro. Nel rapporto vis à vis prevale il concetto dell’amore o dell’amicizia; essa si può definire mutualità. Il concetto di giustizia pone altre questioni; infatti Ricoeur discute con John Rawls che sostiene il concetto di giustizia come equità – dare a ciascuno quello che proporzionalmente gli spetta -, separando i concetti di bene e di giusto; in realtà si possono conciliare questi due concetti, perché in sintesi la giustizia come equità in Rawls si riduce alle procedure. Se la giustizia è la virtù delle istituzioni, intesa come una logica matematica dell’equità, è molto molto difficile concepire la giustizia all’interno della famiglia, in cui dovrebbe predominare la logica della sovrabbondanza, perché non si può misurare qui quello che si dà e quello che si riceve. Calcolare quello un genitore ha dato al figlio o quello che i figli danno ai genitori non si può ridurre a calcoli matematici. La logica della sovrabbondanza, che, secondo Ricoeur, è alla base dell’amore cristiano, e si basa soprattutto sul perdonare il nemico, o chi ci ha offeso,  pone altri problemi. Fino a quando una madre deve perdonare il figlio  che distrugge il patrimonio familiare, o una moglie sopportare la violenza del marito, o il marito la trascuratezza della moglie e così via? Questa logica ci permette di comprendere come persone che hanno vissuto insieme per tanti anni, nel momento che il rapporto si incrina, si dimenticano di tutto il bene che c’è stato tra loro, come se  tutti gli anni vissuti insieme fossero stati annullati dagli ultimi comportamenti negativi. 

Il lavoro dell’oblio diventa quello di cancellare le tracce di tutto il tempo intrecciato con l’altro che non c’è più: buttare le fotografie, i regali, i minimi oggetti del ricordo; esso è anche costituito dalla sottrazione all’altro di qualsiasi bene, la casa, i mobili, gli oggetti: tutto quello che possa recargli danno viene fatto. Il lungo lavoro dell’oblio nel rapporto incrinato si scontra con la presenza dei figli, che si trovano in un conflitto perenne, se dimenticare il genitore che se ne è andato o mantenerne la memoria che l’altro genitore vivrà come un dispetto: chi si sente ferito dal torto dell’altro, ogni momento che il figlio lo nomina, soffre come se il passato tornasse con tutto il suo peso. 

Beatrice o La memoria ferita

A poco più di quarant’anni, sposata con due figli grandi, divorziata e risposata, Beatrice, che ha ricordi vaghi di un’infanzia dove suo padre è morto quando aveva due anni e sua madre quando ne aveva sette, viene a sapere che ci sono alcuni parenti da parte di suo padre, mentre questi non avendola potuta riconoscere perché era a sua volta sposato e non c’era ancora la legge che successivamente ha consentito di riconoscere i figli nati fuori dal matrimonio, alla sua morte era stato in sostanza cancellato dai fratelli della madre di Beatrice, per molti motivi portati a tenere la bambina con loro.

Quando riceve la telefonata della cugina che le dice chi è lei, e le rivela qualche particolare relativo al padre, tanto da non farle dubitare della verità di quanto la donna viene dicendole, Beatrice si sente sconvolta dalla notizia. E’ abituata da sempre a sentirsi sola, senza radici, timorosa di quanto può accaderle senza avere alcuna protezione, già provata da quel preteso affetto dei fratelli della madre, che alla morte di questa l’hanno privata di ogni suo bene, andando contro i suoi stessi diritti; ha cominciato a lavorare giovanissima, e giovanissima si è sposata, per allontanarsi da casa – è lei stessa a dirlo, con lucida consapevolezza – , naturalmente sbagliando per l’affrettatezza, tanto da dividersi pochi anni dopo; ma ormai il passo del distacco era stato fatto, e lei aveva cominciato a guadagnarsi da vivere, cominciando dai gradini più bassi, di piccoli turni din sostituzione di altri in quei villaggi-vacanza o campings che abbondano sulle falde del lago. Tenacemente ha salito i gradini di questo lavoro, fino a diventare la direttrice del campeggio, insieme allevando i due figli, mentre il padre se n’era andato a cercar fortuna in America, e lei non aveva ancora conosciuto quello che sarebbe poi diventato il suo secondo marito, molto più anziano di lei, forse una figura paterna come desiderava avere accanto, in sostituzione del padre che in pratica non aveva mai conosciuto.

I fratelli della madre, alla morte di questa, hanno distrutto ogni traccia del suo breve passato; hanno gettato via le fotografie che la ritraevano con quel padre che non aveva potuto darle neanche il cognome, e con una madre sorridente e tenera, trionfante di mostrarla al compagno, senza mostrare timori per la sua posizione fuori dagli schemi familiari, a quell’epoca molto rispettati, specie in luoghi di stretta osservanza cattolica come l’Alto Adige, dove si è svolta l’infanzia di Beatrice. 

Le foto che conserva gelosamente, chiuse in una busta, non collocate su pagine di album, tutte per lei come a temere che le vengano anche queste sottratte, le sono state date da un’amica della madre, che sia pure di lontano ha seguito le sorti di questa famiglia infelice: lei vi appare talvolta con uno sguardo trafitto da una sorta di inconscia paura, come se già intuisse un futuro tragico e solitario.

In più occasioni Beatrice è stata segnata da un destino crudele. Il mancato riconoscimento del padre ha avuto come seguito la sua morte prematura, che non ha consentito né riconoscimenti né sostegni di tipo economico. La morte della madre, che l’aveva allevata con qualche agiatezza lavorando nell’albergo di famiglia, la priva non soltanto del suo affetto, ma anche di quel sostegno, in quanto i fratelli della donna, pur volendola con loro in apparenza per allevarla nella loro famiglia, la spogliano di ogni suo avere, attraverso manovre illecite, documenti falsi e quant’altro. 

A questo stato di abbandono pare affacciarsi, poco dopo, una speranza. Una sorella del padre, donna facoltosa sposata ad un ricco industriale, convince il marito di prendere con loro la bambina; non avendo figli, pensa la donna, potranno addirittura adottarla. Ma l’egoismo abitudinario del ricco signore costringe la moglie a rimandare la bambina poche settimane dopo averla tenuta con loro, in una vancanza-prova al mare. 

E’ un ulteriore abbandono, meno traumatico del primo, ma più sofferto nella consapevolezza di una raggiunta età della ragione. Quando ha appena tredici anni Beatrice scappa di casa; vaga nei boschi per due giorni, quando alla fine la trovano e la riportano a casa dagli zii, la minaccia che le fanno è quella di chiuderla in un collegio; ma lei provocatoriamente risponde che tutto preferisce pur di non restare lì; e quelli invece la tengono in casa, certo non volendo spendere per lei una retta di collegio e non volendo destare sospetti circa un loro maltrattamento, perché vogliono mettere le mani sulla casa a lei intestata dai genitori prima di morire.

Di altri parenti – zii e cugini – Beatrice sa poco o nulla. In un fugace soggiorno nella città di suo padre è stata portata dalla zia a casa di uno dei suoi fratelli, dove i figli di questo e la moglie accolgono la bambina con effusioni e gioiose profferte di affetto; ma la decisione del ricco zio aggiunto cancella ogni possibile sviluppo di questi incontri familiari, e i ricordi di Beatrice svaniscono via via in un rimpianto confuso. 

E’ quindi un trauma quando riceve la telefonata della cugina. Questa ritiene che debba essere affrontato l’argomento della parentela a pieno campo, dal momento che ogni incertezza non farebbe che complicare la situazione, già di per sé incancrenita dai decenni passati nell’oscurità.

Viene così fuori, subito, la notizia che Beatrice ha una sorella, dal momento che suo padre era sposato e aveva una figlia, nata qualche anno prima di lei, quando ancora lui stava con la moglie legittima: un errore, quel matrimonio affrettato, deciso per ripicca nei confronti di una fidanzata traditrice; così il giovane per una vendetta ha iniziato una trafila di errori che in definitiva sarà Beatrice soprattutto a subire.

Nonostante il timore che la invade a quell’aprirsi improvviso di un’oscurità che pensava definitiva, Beatrice accetta il rischio di nuove delusioni.

La cugina la informa sulla parentela, le descrive  gli zii e i cugini, le promette qualche foto del padre, che nella sua infanzia e adolescenza ha visto più volte. La persona che sta più a cuore a Beatrice è la sorella: perchè non si è mai fatta viva con lei, dal momento che, come le dice la cugina, è stata questa sorella a fornirle quel cognome, abbastanza raro, e il nome del paese dove cercare senza poi troppe difficoltà di rintracciarla, anche se a distanza di qualche decennio? La cugina sa che questa sorella maggiore è una persona insicura, forse a sua volta toccata dall’abbandono del padre quando era ancora bambina, forse resa timorosa dalla madre abbandonata, che può aver parlato in termini di ira di quella nuova famiglia del marito; avverte blandamente Beatrice di non fare troppo affidamento sulla sorella, che da lei avvertita circa il suo ritrovo amento la cercherà – lei crede – al più presto. 

Ma la sorella non si fa sentire. Più volte si sentono e si scrivono cugina e Beatrice, ma la sorella non si profila; lo farà dopo più di sei mesi, annunciando in termini opachi che andrà a trovarla: l’altra le spiega che strada fare con la macchina, e fissano un’ora per l’incontro. Ma il giorno viene e anche l’ora, e poi passa e si fa tardi, ma la sorella non arriva. E Beatrice telefona alla cugina, che sentita la situazione, la rassicura: è il modo di comportarsi della sorella, che oltre a tutto, a quanto a lei risulta, no guida la macchina e quindi anche quel dettaglio dimostra la vacuità di questa sorella. Che si rifarà sentire mesi dopo, e andrà a trovare Beatrice di sfuggita, in occasione di una visita premio del suo CRAL ad una mostra di vini.

Nonostante la mancanza di basi affettive, parentali, culturali, Beatrice è riuscita a raggiungere una posizione economica e sociale di buon livello; ha allevato due figli, dando loro un’istruzione universitaria, e ha mantenuto un discreto rapporto , per via dei figli, con il primo marito, nonostante le aberrazioni di cui questi è stato capace fino al momento in cui lei ha detto basta e ha deciso di separarsene.

Ha modi gentili, un tono di voce mai arrogante, una capacità di lavoro infaticabile, la gente la tratta con rispetto affettuoso, direi protettivo, anche se la sua figura è piuttosto imponente, ma la sua voce è quasi infantile, e le sue forme tondeggianti la avvicinano alla sagoma di una grande infante.

Quello che è riuscita a conseguire, Beatrice lo ha ottenuto da sola. Dice che spesso pensa a quei genitori che le sono sfuggiti troppo presto anche per essere amati e rimpianti.

Le piace l’idea di avere dei cugini; ascolta sorridendo le piccole storie che la cugina le racconta della giovinezza dei nonni, dell’infanzia degli zii, le manie delle zie nubili, l’atmosfera di allegria della casa piena di bambini e di animali in cui è vissuto anche suo padre. Sorride fra tristezza, mestizia e dolcezza. Anche lei ha dato qualcosa di simile ai sui figli, ma da sola, con accanto, negli ultimi anni, quella figura paterna che ha sposato amandola ma come? Mostra con orgoglio le fotografie in cui appare il figlio maggiore nel giorno della laurea: lei gli è accanto, vestita da signora, truccata e pettinata come una madre borghese placide e sicura, ma negli occhi le si intravvede il pianto, e la bocca dischiusa al sorriso ha una piega dura, di volontà ostinata e vittoriosa.

La prima domanda che il racconto ci pone è: come è riuscita Beatrice a superare tante situazioni di rifiuto? Quali sono state le sue risorse per superare i lutti di tutti e due i genitori in tenera età? Ha potuto perdonare gli zii che l’hanno spogliata dei suoi beni? E ha potuto perdonare lo zio ricco che l’ha illusa di una famiglia in cui essere considerata una figlia, proprio nell’ambito della parentela del padre che non ha  avuto la possibilità di riconoscerla?  E soprattutto, ha potuto perdonarsi, in quanto spesso i bambini si attribuiscono delle colpe per giustificare la mancanza di amore da parte degli adulti, o forse dovuto al meccanismo del rapporto violento fra carnefice e vittima in cui il carnefice fa sentire la vittima colpevole, e quindi degna di meritare la pena inflitta? 

Avrebbe potuto avere un futuro luminoso, addirittura diventare una ricca ereditiera, ma la decisione di rifiutarla da parte dello zio ricco l’ha gettata in quella famiglia di fratelli della madre. Alla domanda circa quale è stato l’elemento di forza che le ha permesso di non soccombere a meccanismi autodistruttivi, Beatrice risponde: “L’immagine di mia madre, che mi ha sempre accompagnata, e la fede”.

La madre è presente anche nella sua professione; dai nonni e dalla madre ha ereditato la capacità di gestire luoghi di accoglienza – la famiglia materna teneva da generazioni un albergo -.

Il tessuto del racconto gira intorno al tema della memoria ferita, manipolata e cancellata.

Il rapporto stretto fra memoria e identità pone la questione della costruzione del Sé di Beatrice.

I buchi nella storia vengono riempiti dalle storie fugaci dei visitatori del Villaggio; incontri e scambi legati alla vacanza altrui ripetono il gioco dell’apparire e della perdita; gli oggetti e le persone diventano una realtà liquida, precaria ed incerta. 

Cosa permane in questo movimento di apparizioni e scomparse? Paul Ricoeur differenzia l’identità idem dall’identità ipse. La prima riguarda quell’elemento  fisso, durevole, quell’aspetto che rimane senza modificarsi nella storia del soggetto. La seconda corrisponde al racconto che integra e dà senso alla storia che muta attraverso il tempo e le circostanze. Quest’ultimo aspetto dell’identità corrisponde al rapporto del soggetto con il futuro e si manifesta chiaramente nella promessa della parola data: pur sapendo che le circostanze potranno cambiare rispetto alla previsione, l’individuo dà la sua parola e la mantiene. In questa storia si verificano promesse non mantenute. Avendo avuto nella propria vita esperienza di promesse non mantenute, Beatrice non risponde alla violenza subìta con la violenza; cerca in tutti i modi di trasformare il rapporto di abbandoni e di rifiuti, rompe con questa catena di abbandoni e riesce a dare affetto e a prendersi cura dei suoi figli. 

La notizia arrivata da parte della cugina rimette in discussione il proprio racconto di sé; deve fare tutto un lavoro di ricostruzione, aggiungere tasselli e ampliare il suo essere nel mondo. 

Arriva inaspettatamente l’eredità paterna, non dal punto di vista economico, dalla quale era stata negata, ma dal punto di vista del patrimonio di relazione familiare. In poco tempo scopre di avere tre cugini e una sorella. 

Ma l’elemento fondamentale è il racconto che riguarda la famiglia del padre, che è popolata di storie di viaggi nelle Americhe, che lei ignorava totalmente; questa notizia la sorprende, in quanto lei è attratta dai paesi del Centro e Sud America, e rimane sconcertata quando la cugina le racconta aneddoti in cui nella casa del padre da piccolo ci sono scimmie e pappagalli. 

Questo ampliamento della coscienza permette di integrare e di collegare aspetti del presente con il passato e di dare un filo di continuità che attraversa i tre momenti del tempo, e quindi ilo futuro si apre con altre possibilità.

Beniamino omicida infantile o La rimozione in famiglia

Cinquantacinquenne, pensionato della Guardia di Finanza, sposato e padre di due figli maschi, uno dei quali da poco tossicodipendente, Beniamino fino all’età della pensione – cinquant’anni per via del tipo di lavoro svolto – ha avuto un’esistenza apparentemente normale, ma allo scadere di quella data è entrato in una forte depressione, non capita dalla moglie che lo interrogava circa i motivi di quell’improvvisa caduta di interesse ad ogni cosa, per quei cupi silenzi dove il suo sguardo pareva scavare nel vuoto, alla ricerca di qualcosa che forse soltanto lui sapeva e che aveva, fino a quel momento, rimosso. Nello stesso periodo il figlio minore comincia a presentare un comportamento antisociale, schiva gli amici di un tempo, non parla con i suoi quando li vede nei pochi momenti del pranzo e della cena, esce senza dire dove va e spesso rimane fuori la notte; torna a volte con dei segni di percosse, intontito e lacero. Il fratello maggiore invece studia all’università nella facoltà di Economia e sostiene i primi esami con ottimi risultati; ha anche una ragazza, e questo insieme di elementi positivi nell’esistenza del fratello maggiore determina anch’esso l’entrata del minore nella tossicodipendenza. Rivalità, invidia, incomprensioni fin dall’infanzia hanno creato a poco a poco un solco fra di loro; ad un certo momento i due si sono picchiati, e i genitori hanno mandato via da casa il minore, temendo che succedesse qualche cosa di irreparabile, soprattutto a causa della tossicodipendenza di questo, che poteva arrivare ad atti estremi per una mancanza di controllo determinata dalla droga. In realtà il timore dei genitori era legata alla situazione precedente, che riguardava il padre nella sua infanzia. 

Quando era caduto in depressione, qualche anno prima della cacciata del figlio da casa, il padre era andato in terapia; dopo alcune sedute era riuscito a collegare la sua depressione con un fatto accadutogli quando aveva sei anni, praticamente rimosso fino ad allora: giocando con la pistola d’ordinanza del padre che faceva la Guardia Giurata, Beniamino aveva ammazzato il fratello di otto anni. Di questa triste vicenda in casa non si era più parlato; la famiglia si era trasferita in un altro paese, per evitare che al bambino qualcuno rammentasse la triste vicenda, della quale non era stato colpevolizzato, mentre il padre aveva avuto dei problemi, che però Beniamino non sapeva come fossero poi stato risolti, dal momento che nessuno gliene aveva mai parlato e quando i suoi genitori erano morti, la storia si era chiusa con loro. L’uomo aveva parlato con la moglie di quel fatto, riemerso dopo tanti decenni alla sua memoria come una folgorazione; entrambi avevano deciso di non dirne niente ai figli. 

La lite violenta fra i figli accade alcuni anni dopo il periodo della depressione del padre e della sua scoperta dell’evento luttuoso nell’infanzia. Come conseguenza della dispersione della famiglia determinata da quella lite – il tossico per strada, l’altro taciturno e aggressivo – determina nella madre uno stato di depressione molto grave, al punto da ricorrer e ad uno psichiatra. E’ lui a consigliare alla coppia di iniziare una terapia familiare. Il fatto di aver diviso i figli per timore che si uccidessero – paura eccessiva e inspiegabile, che al ragazzo mandato è parsa abnorme e ingiustificata specie nei suoi confronti, di minore e più debole – alla luce della terapia familiare  a cui insieme al padre hanno preso parte la madre e il figlio maggiore, mentre il più piccolo, che si era messo a vivere per strada si era sempre rifiutato di partecipare alle sedute, è venuto emergendo il nesso che sotterraneamente si era venuto creando fra l’antica tragedia e la situazione attuale, dove di nuovo due fratelli si trovavano  l’uno di fronte all’altro, e si andava realizzando una minaccia di morte. 

Il motivo apparente che ha condotto i membri della famiglia di iniziare una terapia familiare – cioè la forte depressione della madre – in realtà non è il problema principale, che viene ad evidenziarsi mano a mano che si effettuano le sedute: è il padre ad essere la persona più fragile, più vulnerabile, e quindi a rischio.

La presa di coscienza del collegamento della depressione a causa del delitto infantile con la paura che i loro ragazzi si uccidessero ha consentito ai genitori di assumere dei comportamenti più tranquilli, rilevando l’esagerazione della precedente decisione di separar i due figli mettendone addirittura uno fuori di casa; ridimensionando la situazione, essi hanno fatto rientrare a casa  il tossico, senza imporgli la frequentazione di un programma di recupero, come in maniera troppo intimidatoria avevano fatto in precedenza, il rapporto con il maggiore si è andato riallacciando attraverso qualche incontro a cena, in un clima disteso, nel  quale anche il padre ha cominciato a ripresentarsi con le caratteristiche positive di una paternità seria ma indulgente, mentre la madre ha sfruttato le sue qualità di donna di casa preparando quelle cene in maniera che diventassero dei momenti di riunione e di allegria.

Questa situazione, emersa poi in tutta la sua complessità nel corso delle sedute di terapia familiare, deve essere visualizzata come una concatenazione di eventi, il primo dei quali affonda le radici in un passato oscuro e inquietante nella storia del padre, prosegue nella apprensività genitoriale rispetto al rapporto conflittuale dei figli come possibile suscitatore di morte, si attesta nella tossicodipendenza del minore, da considerare come un suicidio differito, ma anche come un omicidio graduale nei confronti dei parenti, prosegue e si sviluppa dalla depressione paterna a quella materna, motivata con l’indifferenza nei suoi confronti da parte del marito, dando in realtà all’indifferenza del marito una causa che invece era altra, e cioè la preoccupazione dell’uomo per dover risolvere uno stato di fatto personale, del quale non aveva mai potuto parlare apertamente e discuterne per poterlo superare. In sostanza l’uomo non aveva potuto portare il suo vissuto sul piano del linguaggio.

A livello di nucleo familiare è intervenuta una serie di meccanismi, che hanno scisso il piano dell’azione dal piano del linguaggio: la rappresentazione-ricordo è stata scollegata dalle emozioni; essa non è rimasta storicamente separata dal presente, per cui la distensione che avrebbe dovuto costituirsi, collocando l’evento nel passato, tale evento continua ad essere presente e quindi a condizionare il comportamento di ciascuno dei membri della famiglia, inconsapevoli dell’effetto della pressione determinata sul padre.

Questa terapia non è concluso e pone nuovi quesiti, come ad esempio se rivelare ai figli quanto accaduto al padre, o se esso debba rimanere come un segreto fra i genitori.

Nella terminologia di René Girard intervengono anche fattori di rivalità mimetica. La lite tra fratelli è anche legata a questa forma di rivalità.

 Barbara o La rivalità mimetica

E’ una signora consulente al Comune: quarantotto anni, sposata, con due figli; il marito, Fortunato,  ingegnere di prestigio, ne ha cinquantadue. Viene in comunità per il figlio Luca di sedici anni, con problemi di droghe leggere; la figlia, Elisabetta di diciotto, presenta disturbi dell’alimentazione nella forma anoressica.

Barbara è preoccupata per il figlio che non vuole saperne di frequentare un programma terapeutico, decisione che viene appoggiata da Fortunato, che a sua volta dice di sentirsi prigioniero della famiglia, mentre i figli sono molto arrabbiati con il padre che li ha lasciati a se stessi, peggiorando il comportamento a scuola da parte di Luca, e portando Elisabetta ad un ennesimo sciopero della fame.  Ma il problema principale che Emerge dai discorsi della donna è che la sua vita di coppia rischia di incrinarsi, in quanto Fortunato, proprio poco tempo prima, nel periodo natalizio, le ha rivelato di avere un’altra relazione e ha intenzione di andarsene di casa perché, come le ha detto con enfasi, “ha intenzione di vivere la sua vita e di essere felice”.

E Barbara mi racconta quello che ha saputo: dopo più di venticinque anni, suo marito ha incontrato Lucia, una sua “fiamma” del periodo in cui studiava all’università,  che al liceo era anche stata compagna  di Barbara; Fortunato era innamorato di Lucia, ma non glielo aveva mai rivelato perché si sentiva inadeguato in quanto “non era bello”; invece Lucia, pur non conoscendo i sentimenti dell’uomo, se ne era innamorata; in quel periodo anche Barbara si era innamorata di Fortunato: “Io sono stata più coraggiosa e mi sono fatta avanti – prosegue a raccontare -;  ci siamo messi insieme; dopo la sua laurea ci siamo sposati e io mi sono goduta la vittoria su Lucia”. 

Barbara  ricordava questa storia, ma pensava che fosse finita all’epoca degli studi; non immaginava che la sua compagna rivale dell’adolescenza – secondo il suo linguaggio – “tornasse di nuovo in gara”; alla dichiarazione di Fortunato si sente beffata dalla sorte e, passando al contrattacco,  accusa il marito di essere sempre stato arrogante con lei e di farle sentire di credersi superiore. Questo atteggiamento, in realtà davvero tenuto dal padre, ha creato insicurezza nei figli, che vivono nel terrore di essere giudicati dall’uomo; egli infatti non ha nessun ritegno nel sostenere che entrambi i ragazzi sono degli incapaci, e che soprattutto Luca sia un “coglione” perché non è stato capace di reagire alle difficoltà della vita: “Non ha preso da me, io mi sono fatto da solo – grida alla moglie in continua polemica -; eppure io vengo da una famiglia poverissima”. Questi figli, secondo la sua animosa e superba valutazione,  sono “molli” e non meritano nessun rispetto. Bisogna però riconoscere che,  proprio per contrastare il marito, la donna ha messo di mezzo i figli sobillandoli contro il padre, a cui, da quando se ne è andato di casa, ha scritto innumerevoli lettere, senza riceverne alcuna risposta. Le poche volte in cui Barbara riesce a incontrarlo, Fortunato continua a ripeterle che adesso si sente finalmente libero da lei, che nei suoi confronti ha fatto sempre la parte del “comandante”.  Ma la storia si rivela presto assai diversa da come l’uomo la sognava: Fortunato crede di scappare dalla moglie “comandante” per ritornare all’amore dell’adolescenza, tutto dolcezza e tenerezze, mentre adesso Lucia ha maturato la sua personalità, si è impegnata in un difficile lavoro istituzionale ed è arrivata  a dirigere un sistema carcerario: anche lei quindi mostra un carattere decisionista, non disposto a cedere o a mediare anche nelle situazioni sentimentali. 

Barbara ha riversato nel suo diario tutta l’angoscia di perdere il marito; in quelle pagine comunque se la prende soprattutto con la “comandante” che – secondo il suo giudizio carico di gelosia – vuole “rubarle” Fortunato.  In tutto il lungo scritto non fa altro che parlare della rivale; la sua autostima è venuta meno, mentre prima si sentiva forte e  in grado di portare avanti il suo lavoro con determinazione ed efficienza. tutte quelle pagine scritte con impeto ed animosità in sostanza si risolvono in lettere rivolte alla rivale; dopo mesi di questi continui invii, Lucia, la donna “comandante”, le spedisce una e-mail in cui dichiara trionfalmente che ha rotto con Fortunato e che glielo “rinvia a domicilio”. Dopo la decisione dell’amata Lucia, Fortunato si trova a un bivio: potrebbe andare a vivere da solo, avendone anche i mezzi, oppure potrebbe ritornare dalla moglie, ma si vergogna di ripresentarsi a casa, anche se Barbara sicuramente lo accoglierebbe subito senza rimproveri;  dal momento che è riuscita per una seconda volta a strappare a Lucia l’uomo che entrambe hanno adorato – mi dirà Barbara -, la donna si riprende il marito. Dopo mesi dal rientro a casa di Fortunato, Barbara non prova odio per il marito, ma neanche amore. Scomparse la lite e la contesa con Lucia, ormai è svanito anche il suo interesse per Fortunato; come per una magia il dolore ha fatto posto all’indifferenza. “Non si tratta di punirlo per quello che ha fatto” – conclude Barbara -, ma, non so perché, ormai lui non mi dice proprio niente”. In realtà è scomparsa la rivalità che al tempo del liceo le due donne avevano provato innamorandosi dello stesso ragazzo.

La prima domanda che mi pongo è: di chi si innamora una persona, in precedenza innamorata di un’altra, dopo trent’anni da questa circostanza rimasta ferma a quel tempo? Sto facendo riferimento a Fortunato che ritrova la Lucia dei suoi anni giovanili. Dal momento che le persone dopo tanti anni sono cambiate radicalmente, chi vedono come soggetto del loro innamoramento? E loro stesse, come sono viste rispetto all’oggetto del loro amore?  Lo stesso interrogativo viene a porsi anche da parte di Barbara, la donna tradita, che si trova dinanzi un uomo che non mostra più le caratteristiche dell’innamorato di allora. Dal punto di vista morale, Fortunato, pur di pensare a se stesso, cancella i suoi vincoli familiari, dimenticando il dolore che può causare il suo comportamento nei propri cari. Nella terminologia di René Girard, il concetto di rivalità mimetica permette di mettere in evidenza comportamenti che circolano in un breve spazio psichico; il gioco, alla fine, avviene, come sempre accade, fra tre elementi – Fortunato-l’oggetto conteso, Lucia-modello di Barbara e Barbara-modello di Lucia -; caduto agli occhi di Lucia l’oggetto conteso-Fortunato, in apparenza si sospende la lotta fra le due donne, ma l’uomo viene a cadere anche agli occhi di Barbara, sua moglie, per la quale il marito  ha perso quei caratteri di fascino che quando era conteso,  aveva per lei. 

In questa storia, chi viene sollecitato è il desiderio umano. Forse dopo tanti anni di matrimonio, con i figli che cercano un loro svincolo dalla famiglia, senza riuscirci, sono i ragazzi a mantenere in piedi una sorta di coppia nella quale il desiderio era pressoché svanito.  E’ per questo che vi si è potuta inserire la rivale, mettendo di nuovo in gioco un desiderio spento. L’idea di Barbara, di vedere la famiglia distrutta  dall’intrusione di Lucia è in realtà illusoria, nel senso che la famiglia era già divenuta inesistente in precedenza.

da Morte di un commesso viaggiatore

di Arthur Miller 

Biff o La caduta del mito del padre

         Atto primo, la didascalia iniziale

Si sente una melodia, suonata da un flauto. È lieve e bella, parla di erba e alberi e orizzonti. Si leva il sipario.

Davanti a noi è la casa del commesso viaggiatore. Dietro, s’intravedono forme torreggianti, angolose, che la circondano da ogni parte. Solo la luce azzurra del cielo cade sulla casa e sul proscenio; lo spazio intorno brilla di torvi riflessi arancione. Man mano che si fa luce, vediamo una solida volta di grattacieli circondare la piccola fragile casa. Un’atmosfcra di sogno aleggia attorno ad essa, un sogno che nasce dalla realtà. La cucina, al centro, sembra abbastanza reale, contiene un tavolo da cucina, tre sedie e un frigorifero. Altri oggetti, niente. Dietro la cucina c’è una porta con una tenda, che conduce alla stanza di soggiorno. Alla destra della cucina, su un praticabile alto mezzo metro, una camera da letto ammobiliata soltanto con un letto di ottone e una sedia. Su una mensola sul letto sta una coppa vinta in una gara sportiva. Una finestra si apre sul grattacielo di fianco. Dietro la cucina, su un praticabile alto due me­tri e mezzo, è la stanza dei ragazzi ancora in penombra. Si distinguono appena due letti, e in fondo alla stanza una finestra a abbaino. (Questa camera da letto è sopra la camera di soggiorno, che non si vede). A sinistra vi monta una scala dalla cucina. La scena è in ogni sua parte, o quasi, trasparente. La linea del tetto della casa è a una dimensione. Sopra e sotto di essa si vedono gli edifici circostanti. Il proscenio davanti alla casa fa da cortile come anche da luogo deputato per tutte le fanta­sticherie e le scene cittadine di Willy. Quando l’azione si svolge nel presente gli attori osservano il tracciato delle mura immaginario, ed entrano in casa soltanto attraverso la porta a sinistra. Ma nelle scene del passato questi confini vengono abbandonati, e i personaggi entrano o escono da una stanza attraversando il muro per venire in ribalta.

Dalla destra, Willy Loman, il commesso viaggiatore, entra con due grosse valige di campioni. Il flauto suona. Egli lo sente ma senza avvedersene. Ha più di sessant’anni; è vestito modestamente. Al solo vederlo attraversare la scena diretto verso la porta di casa, appare evidente la sua stanchezza. Apre la porta con la chiave, entra in cucina, e con sol­lievo lascia cadere le valige; gli fanno male le palme delle mani. Si lascia sfuggire un’csclamazione— – un sospiro, potrebbe esscre :  “Ohi mamma, ohi mamma”. Chiude la porta, poi trascina le valige nella stanza di soggiorno, attraverso la tenda in fondo alla cucina.

Linda, sua moglie, nel letto, a destra, si riscuote. Scende, e indossa una vestaglia, tendendo l’orecchio. E’ spesso gioviale, e abituata da lungo tempo a reprimere le sue obiezioni sul comportamento di Willy. Più che amarlo, lo ammira, come se la natura effervescente di lui, i suoi sfoghi, i suoi sogni grandiosi, le sue piccole crudeltà, servissero solo a ricordarle con crudezza i turbolenti desideri nascosti in lui, desideri che lei condivide, ma senza lo slancio necessario a manifestarli e a condurli a fondo.

Biff ha due anni più di Happy, è ben piantato, ma in questi giorni ha l’aria stracca e non tanto sicura di sé. Ha fatto meno carriera di Happy, e i suoi sogni sono più forti e meno ovii di quelli di Happy. Happy è alto e molto robusto. L’aria del donnaiolo è visibile su di lui, come un colore o un odore che molte donne hanno fiutato.  E’ un fallito come Biff, ma in un modo diverso, perché non si è mai rassegnato a riconoscere la propria disfatta, ed è quindi più confuso e ostinato, benché apparentemente più soddisfatto. 

Willy Loman è un piccolo rappresentante di abbigliamento femminile; è sposato con una brava donna che lo adora e lo sostiene con la sua ammirazione, e ha due figli maschi ormai adulti che negli anni dell’adolescenza lo hanno considerato un mito, credendo ai suoi racconti carichi di vanteria fantasiosa, a cui ad un certo punto non hanno più creduto. 

La struttura fantastica del padre comincia a mostrare le sue crepe; soltanto la moglie continua a circondare di ammirazione sconfinata il marito, che riesce a dare luce al suo mondo di casalinga frustrata, facendola partecipare ai suoi grandiosi progetti, alle sue avventure e ai suoi successi negli affari, come lui tornando racconta. Happy, il figlio minore lavora come caporeparto vendite; suo fratello Biff viene considerato dal fratello un fallito perché sogna come il padre, è un poeta, non ha mestiere, e pur cercando di indurre Happy ad affrontare con lui progetti grandiosi ma privi di base, non riesce in niente. Quando Biff va a trovare il padre in una cittadina dove questi sta lavorando esibendo i suoi prodotti, nella stanza di albergo scopre una donna con cui Willy sta per avere un incontro erotico, ma all’arrivo del figlio tenta di mascherare la situazione con il pretesto che la donna è una cliente. Da quell’episodio Biff comincia a covare contro il padre un rancore che si accresce ancora di più quando, andato a cercare lavoro da un tale che dovrebbe prenderlo in considerazione perché amico del padre, scopre che questi non è considerato per niente. Avviene poi che Willy  viene licenziato senza apparenti motivi e senza risarcimenti; rimane così privo di lavoro, dopo anni di impegno che si era illuso lo avrebbero gratificato; non sopportando questa ulteriore sconfitta, aggiunta alla perdita di considerazione dei figli, si suicida andando alla deriva sulla sua automobile; soltanto la moglie lo rimpiange, vagheggiando ancora i suoi sogni, e si chiede il perché di quel gesto che ha posto fine alla loro storia. 

Nell’opera teatrale “Morte di un commesso viaggiatore”, Arthur Miller presenta l’interrelazione fra l’invenzione fantastica che permette a Willy Loman di sopravvivere alla realtà, squallida e routinière, e la sua famiglia. Il mondo del lavoro, anonimo, senza prospettive, e rigidamente legato ad interessi economici che non tengono per niente conto delle istanze e delle aspirazioni individuali, badando soltanto al tornaconto, viene messo in evidenza dall’autore attraverso il microcosmo di un personaggio perdente.

Il suicidio di Willy Loman pone in particolare risalto il concetto di riconoscimento e la sua importanza per la stima di sé; il riconoscimento avviene all’interno di un ordine del riconoscimento; ci troviamo nella dimensione simbolica, perché non si tratta di un riconoscimento economico – aumento di soldi o promozione – o il riconoscimento che può avvenire da parte di chiunque; tale riconoscimento deve avvenire all’interno di un universo simbolico, attraverso persone o oggetti a cui l’individuo ha attribuito un valore particolare.

Il riconoscimento deve avvenire in un rapporto trialogico: qualcuno mi deve riconoscere alla presenza di un altro o di altri. Per tale motivo la considerazione che manifesta Linda, la moglie, non ha un effetto particolarmente significativo, da bloccare il dolore e l’umiliazione provati da Willy a causa della caduta della considerazione da parte dei figli e della perdita del lavoro. La perdita di questo lavoro soprattutto determina la sua caduta definitiva, in quanto era questo il motivo attraverso cui stabiliva relazioni e immaginava successi, e da esso dipendeva anche la considerazione dei figli, fino a quando la sua immaginazione lo aveva fatto credere vero. Ed era sempre a quel lavoro di commesso viaggiatore che gli permetteva voli immaginari e ipotesi sempre nuove di miraggi, che Willy  era  rimasto attaccato, pur avendo ricevuto proposte di altre occupazioni: ma la realtà concreta e inoppugnabile non faceva per lui, che voleva margini di sogno.

Nell’ultima scena – quella del funerale, che in nota riportiamo -, lo zio Charley, che viene ad assumere la funzione di un moderno coro, dice:

Charley (fermando il gesto e la risposta di Happy) Non calun­niate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy  era un com­messo viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lu­cido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.

Mentre i figli che non hanno riconosciuto il padre, ora meditano sulle parole di Charley, Linda continua ad essere prigioniera del sogno, dell’immaginario, quasi appendice del marito, non un altro da sé; incapace di riconoscere la perdita, per questo non può piangere, sembrandole che il marito continui ad essere in viaggio. Da quanto dice Linda, circa i debiti ripianati dal marito, che proprio allora, quando non ci sono più debiti se ne è andato, parrebbe che Loman possa essersene andato perché ha concluso di pagare i suoi debiti per la famiglia, sentendosi così meno obbligato dal compito di dover provvedere materialmente ad essa.

Requiem

Charley È quasi buio, Linda.

Linda non si muove. Sta con gli occhi fissi alla tomba.

Biff Che ne dici mamma? Un po’ di riposo ti farà bene. Tra poco chiuderanno i cancelli.

Linda resta immobile. Pausa.

Happy (con ira compressa) Che diritto aveva?? Che bisogno aveva di farlo? L’avremmo aiutato noi.

Charley (con un grugnito) Mmm.

Biff Ti alzi, mamma? 

Linda Perché non è venuto nessuno? 

Charley II funerale a me è piaciuto.

Linda Ma tutta la gente che lo conosceva, dov’era? Forse lo giudicano male.

Charley No. Il mondo non è mica facile, Linda. Non possono giu­dicarlo male.

Linda Non capisco. Proprio adesso. La prima volta in trentacinque anni che cominciavamo a liberarci dai debiti. Un piccolo stipendio ed era a posto. Aveva finito perfino di pagare il dentista.

Charley  Lo stipendio. Non basta mica, lo stipendio. 

Linda Non capisco.

Biff Quanti bei giorni. Quando rientrava dal giro; e la dome­nica, a fabbricare il portico davanti alla casa, o ad im­biancare la cantina, o a sistemare la veranda; quando impiantò il secondo bagno e, in quattro e quattr’otto, su, il garage. Sai una cosa, zio Charley, è più suo quel portichetto davanti che tutte le combinazioni d’affari che ha fatto.

Charley Eh, già. Gli davi un cartoccio di calce ed era un uomo felice.

Linda Straordinario, cosa sapeva fare con quelle mani,

Biff    Sbagliava i sogni. Quelli li sbagliava. Tutti! 

Happy (fa quasi per slanciarglisi contro) Lo dici tu! 

Biff Credeva di essere una cosa ed era un’altra.

Charley (fermando il gesto e la risposta di Happy) Non calun­niate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy era un com­messo viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lu­cido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.

Biff  Credeva di essere una cosa ed era un’altra, zio Charley! 

Happy (infuriato) Lo dici tu!

Biff Perché non vieni con me, Happy?

Happy Non mi ritiro cosi facilmente. Io resto in questa città e marcio per la mia strada! (Guarda Biff, risoluto) I fratelli Loman !

Biff Eh no. Io mi conosco.

 

Happy Come ti pare. Farò vedere a te ed a tutti quanti che Willy Loman non è morto per niente. Non sbagliava i sogni. Aveva l’unico sogno che un uomo può avere — diventare il primo in quello che fa. Lui non è riuscito a realizzarlo qui: lo realizzerò io per lui.

Biff (con uno sguardo scettico a Happy, si avvia verso la madre) Andiamo, mamma.

Linda Ti raggiungo fra un minuto. Vai Charley.

Charley esita.

Vai. Un minuto solo. Non mi è ancora riuscito di dirgli addio.

Charley si allontana, seguito da Happy. Biff rimane a una certa distanza in fondo a sinistra di Linda. Lei resta a sedere in terra concentrandosi. Non molto dopo il flauto comincia a suonare sulle sue parole.

Perdonami, caro, non mi viene da piangere. Chi lo sa perché, non mi viene da piangere. Non capisco. Perché l’hai fatto ? Aiutami Willy, non mi viene da piangere. Mi sembra che tu sia partito per il solito giro. Sto qui an­cora ad aspettarti. Willy caro, non mi viene da piangere. Perché l’hai fatto? Mi sforzo, mi sforzo, ma non riesco a capire, Willy. Ho pagato l’ultima rata della casa oggi. Oggi caro. E la casa è vuota. (Un singhiozzo le nasce nella gola) Abbiamo pagato tutti i debiti. (Lasciandosi andare al singhiozzi, liberamente)Abbiamo pagato tutti i debiti. 

Biff scende lentamente verso di lei.

Abbiamo pagato tutti i debiti.

Biff la solleva in piedi ed esce a destra sorreggendola tra le braccia. Linda singhiozza silenziosamente. Bernard e Charley entrano insieme e li se­guono, seguiti da Happy. Sul palcoscenico che si oscura rimane soltanto la musica del flauto mentre sulla casa le torri dei grattacieli si stagliano nella luce e… 

Sipario.

L’agguato o Il travaglio della giustizia

Tratto da una storia vera, “L’agguato”, un film americano del 1993, regista Robert Reiner, protagonisti Alec Baldwin – il giudice -, James Woods – il razzista -, e Whoopi Goldberg – la moglie del nero assassinato -, racconta la storia della vedova di un attivista di colore per i diritti civili che, a venticinque anni di distanza dalla morte del marito ucciso da un razzista bianco poi scagionato, riesce a far riaprire il caso ottenendo finalmente giustizia. 

Nel percorso che va dalla memoria individuale alla memoria collettiva che Paul Ricoeur realizza partendo dagli studi di Freud in “Ricordo, ripetizione, rielaborazione” e in “Lutto e melanconia” si verifica soprattutto il lavoro del lutto come uno scontro di forze psichiche che cercano di cancellare, manipolare, imporre un’altra versione, o di rimuovere un ricordo di un evento accaduto o immaginato dal soggetto. Secondo l’ipotesi dell’equivalenza, lo stesso meccanismo che corrisponde all’abuso della memoria si verifica a livello della memoria collettiva, analizzando la quale si può arrivare a quella individuale, riscontrandone per analogia gli stessi meccanismi.

Nel film, la moglie dell’attivista nero ucciso all’epoca di Martin Luther King, ne mantiene viva la memoria e l’esigenza di giustizia nonostante una sentenza passata in giudicato a causa di una mentalità e di un costume avverso ai neri, attraverso cui erano state cancellate le prove della colpevolezza del razzista, al punto da farlo assolvere. Stranamente sia la donna che il razzista mantengono  viva, ciascuno a suo modo, la memoria dell’evento: la moglie continua a chiedere che sia fatta giustizia seguendo l’evidenza dei fatti e conservando lei dei documenti relativi al processo; il razzista mantenendo la sua sicurezza di bianco impunito e impunibile secondo la sua ottica e quella dei razzisti.  

  pubblicato su Igitur,anno VI (2005) Memoria e oblio a cura di Carla Solivetti, Nuova arnica editrice. Rivista annuale di lingue, letterature e culture moderne.


[1] Maricla Boggio, “Farsi male”, consulenza di Raffaella Bortino, presentazione di Claude Olievenstein, Falzea editore, Vibo Valentia, 2001.

El tercer cerebro y la inteligencia interdividual

EL TERCER CEREBRO Y LA INTELIGENCIA RELACIONAL

Francisco Mele[1]

Publicado 21 agosto 2021

LA CONSTRUCION DEL “YO-ENTRE DOS”. 

El Yo interdividuale no es un yo interindividual; es el yo que se construye entre dos yo que no sono autonomos, mas bien, se puede decir con palabras de Emanuel Lévinas, el yo que nace en el espacio del nosotros. No es otro distinto de mi o de ti, sino el yo que se elabora en el  encuentro entre yo y tu. Pero es tambien el yo que se “configura” en el espacio social, institucional y grupal. Por ejemplo el yo del hincha de futbol no es un yo autonomo, vive y sufre con la camiseta del club. El yo-argentino, el yo del empleado del estado , el yo del alumno o profesor del colegio Nacional o del colegio Del Salvador de Buenos Aires, el yo del medico o del cura, es un yo que trasciende los limites del sujeto y no desaparece devorado por la organización a la cual pertenece. Un anàlisis màs detallado lo estamos llevando a cabo a través de los estudios acerca de la gramàtica imputacional indiciaria que ha desarrollado el filosofo del derecho Jean-Marc Ferry. [1]Esta gramàtica nos puede ayudar a leer lo que estamos viviendo y a darnos cuenta que necesitamos reconstruir una nueva gramàtica incluyendo el web que ha determinado y està modificando nuestro mundo esterno e interno. No sabemos  como terminarà el romance que estamos viviendo y  que darà cuenta de los dias, de las horas, de los proyectos que hemos perdido y de las nuevas “reconfiguraciones” que tenemos que elaborar a partir de una mirada que se ha desplazado y tendrà que confiar siempre mas en la ciencia, en la tecnologia y sobre todo confiar en el “Dios Web” que todo ve, todo mira, que sabe de nosotros màs de los que nosotros sabemos de nostros mismos. El Dios Web esta construyendo una nueva creatura “El yo webizado”. En terminos de Ferry, la gramàtica iconica nos ofrecerà los indicios para observar y vivir este mundo, que por algunos momentos nos ha permitido de descubrir el YO-Humanidad, porque la pandemia sarà vencida cuando la mayor parte de la poblacion mundial se sienta segura de no ser agredida por el virus. Por otro lado, por un momento se ha pensado y rezado para que el enemigo esté bien y no nos contagie. Parecia que las guerras podian pasar en un segundo plano. Claramente se tratò de una ilusiòn del Espiritu, los conflictos, lamentablemente aumentan, porque para salir de la crisis economica algunos gobiernos  puntan en el incremento de la fabricacion y en la ventas de armas. Como dice un dicho popular, la industria quimica y la industria belica no van en crisis nunca. En  otro articulo he escrito que “los amigos te pueden traicionar, los enemigos no te traicionan nunca”, se necesita del enemigo para sobrevivir? Se puede vivir sin enemigos? Por ahora tenemos que combatir el enemigos de todos: el Covid. 

ARTÍCULO PUBLICADO EN “La notte stellata”, N 1, 2021. Revista de psicología y psicoterapia dirigida por Francesco Colacicco.

Resumen:El tercer cerebro se configura entre dos cerebros que interactúan, se encuentran o repelen i se interinfluenzan positiva o negativamente.

Las neuronas espejo del tercer cerebro se reflejan a través de una relación diádica entre sí en un proceso infinitamente mimetico, en el que es difícil arreglar y descubrir quién comenzó el proceso interactivo. La definición del cerebro conlleva el riesgo de un reduccionismo a través del cual uno quiere explicar al ser humano.

LA BIOPSICOSOCIOLOGIA

A partir de los estudios de René Girard y Jean-Michel Oughourlian, ha surgido una lectura muy particular sobre el comportamiento de las personas en un contexto psicosocial.

Esta lectura tiene sus raíces en la psiquiatría especialmente francesa, un punto de referencia necesario para entender e integrar los tres cerebros: el cognitivo, lo emocional y lo relacional.

Oughourlian y Eugène Webb argumentan que uno debe superar la idea de un yo mismo que está dentro de una A autónoma, un io-in-self insertado en una B autónoma, en favor de un yo construido y deconstruido entre dos. En cada encuentro con el otro, el “yo- entre-dos”  comienza a formarse desde la infancia. Cada uno de nosotros es el resultado de una serie de gestos y palabras de otros que han influido en nuestro yo a lo largo de nuestra historia. Andrew Meltzoff estudió la imitación de la infancia y descubrió que el niño no sólo imita los movimientos del experimentador y lo expresa, por ejemplo, en el movimiento de la lengua, sino que sobre todo imita y presta atención a la intención del experimentador. Estos descubrimientos, junto con los del equipo de Parma dirigido por Giacomo Rizzolatti y Vittorio Gallese sobre las neuronas espejo, llegan después de cincuenta años para confirmar la hipótesis de mimetico elaborada por René Girard. La hipótesis es que el deseo  mimetico está en la base de todas las formas de rivalidad, génesis de la violencia. Desde mis estudios de criminologia y de mi trabajo  en un hospital judicial, en una prisión y luego en instituciones juveniles, la teoría de René Girard me ha ayudado a encontrar una respuesta a la pregunta, por qué la violencia tanto socialmente como en la familia. Mi tesis doctoral había tenido en cuenta los crímenes familiares, estudios que había llevado a cabo entre finales de los años setenta y mediados de los ochenta.  Girard, que no era psiquiatra ni psicólogo, había descrito, a través del análisis de autores como Shakespeare, Dostoievski, Proust, Molière, Camus y otros, la génesis de la violencia causada por la rivalidad entre personajes literarios: los artistas anticipan descubrimientos científicos. [3]

Oughourlian argumenta que la mimesis es un descubrimiento significativo para entender la relación que hace que los sujetos se acerquen, entren en conflicto y repelan. El principio mimetico sería el equivalente a la ley gravitacional de Newton que responde a la pregunta: qué mantiene los cuerpos celestes juntos? qué impide que todos salgan de órbita? o lo que impide que la Tierra colisione con la Luna? y sobre todo también responde a la pregunta, por qué los humanos no caen o se despegan de la Tierra?

El principio  mimetico es la base del aprendizaje, de la auto-construcción del si mismo y de la relación interpersonal. En la teoría del tercer cerebro, que tiene en cuenta el principio mimetico,  el yo no es una monade cerrada en sí misma y que se relaciona con otras monades, sino que es una construcción en reconstrucción continua. Fácilmente el yo puede perder consistencia al conocer a otro o dentro de una institución, o disolverse en un grupo de pares o cuando viene asaltado por los fantasmas del pasado  o en el choque con figuras que lo suyugan. En esta perspectiva está surgiendo un tipo de relación que no es inter-individual, sino “interdividual”, porque en el encuentro del yo con otro se crea un movimiento inter-influenzal porque, no se sale igual despuès de haber entrado en una relaciòn con un otro significativo.  

Entonces el deseo  mimetico se activa, modifica y llega a condicionar los movimientos de cada uno de los sujetos que participan en la relación. La capacidad de tratar, entender y gestionar relaciones inter-individuales es parte de la inteligencia relacional. [4]

El tercer cerebro no es una entidad autónoma de los otros dos cerebros; hay una correspondencia continua entre estos tres cerebros que se determinan entre sí, y ninguno de ellos puede presumir su propia autonomía.

DALL’IO COVIZZATO AL SE RELAZIONALE

GLI ODIANTI: uniti dall’odio.

Quando l’odio è più forte dell’amore.

di

Francisco Mele

Convegno : Aspetti sociali della pandemia

organizzato dal Sindacato Italiano Lavoratori di Polizia – SILP

Presso la CGIL a Roma

30 giugno 2021

Questa pandemia mette in crisi l’individuo, la società, la famiglia e soprattutto rappresenta una minaccia a un sistema economico di cui ancora non possiamo prevedere le conseguenze sulla vita di ciascuno di noi. Questa situazione in cui fiducia e sfiducia si alternano scardinando l’idea stessa di comunità e di famiglia pone agli psicoterapeuti la domanda di come intervenire per aiutare gli altri che vivono questa crisi, perché noi psicoterapeuti non siamo fuori e liberi dalle stesse angosce.  Una figura significativa è stata Victor Frankl che nel campo di concentramento dove era rinchiuso è stato capace di aiutare tutti quelli che si rivolgevano a lui in quanto psicoterapeuta. Stiamo vivendo gli stessi problemi che vivono i nostri pazienti. Qui si mettono in moto le nostre competenze e soprattutto si sfidano le nostre diverse intelligenze: quella cognitiva, quella emotiva, l’intelligenza relazionale e soprattutto l’intelligenza spirituale, che non è legata a una particolare confessione religiosa. Essa è la risposta che mi do, prima come essere umano e poi come psicoterapeuta in relazione a tre domande fondamentali: Cosa significa per me la morte? Ha per me un senso la vita?  Come vivo il passaggio del tempo?  Dopo quasi un secolo Karl Jaspers ci può venire incontro: lui, che ha vissuto la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale avendo una vita limitata dovuta a una malattia fin dall’infanzia, diceva che davanti alla morte siamo soli. Nella ricerca dell’essere sé stesso, Jaspers affronta il tema della libertà, ma soprattutto lo scontro delle situazioni limite in cui ciascuno riceve in contraccambio un rimando alla domanda dell’immanenza e della trascendenza. Davanti alla situazione limite dov’è l’uomo: nella natura, nel cielo stellato, o nella storia? L’angoscia di trovare quel muro della situazione limite che ci fa sentire che la terra si muove sotto i nostri piedi è sicuramente una delle esperienze più drammatiche. Quelli che, in questo periodo di Covid, sono tornati dai ricoveri dopo essere stati intubati per un periodo e attaccati all’ossigeno, non riescono a trovare parole per descrivere quello stato. Scrive Jaspers: “Noi diventiamo noi stessi, entrando a occhi aperti nelle situazioni limite”. Entrare con gli occhi aperti, con il pensiero lucido, da soli, è una sfida che sicuramente pochi mesi fa nessuno di noi avrebbe immaginato che potesse accadere.

Tanti che sono andati a curarsi negli ospedali si sono trovati a dover affrontare un percorso che nei sogni più angoscianti forse molti di loro non avevano mai vissuto. In questi casi, di fronte alla tragedia di non poter ricevere un minimo di conforto da qualcuno che si potesse toccare, vedere o sentire, sembra di dover dare ragione al pensiero del grande psichiatra tedesco.
Per ultimo, secondo me, il lavoro psicoterapeutico dovrebbe essere concentrato in questo periodo nel sostenere emotivamente e psicologicamente il personale sanitario che sta affrontando questa pandemia.[1] 


[1] Consultare sempre su www.psicologiacritica.it “Il terzo cervello e il Se relazionale” articolo pubblicato sulla rivista di La notte stellata, n1 2021. e “Gli anticorpi spirituali. Il Caduceo di Macrobio simbolo della medicina e della farmacia”. 

IL TERZO CERVELLO E IL SE RELAZIONALE

IL RORSCHACH DELLA NATURA

Il Soratte guarda la luce del Sole che si riflette sulla Luna

Francisco Mele

Questa pandemia mette in crisi l’individuo, la società, la famiglia e soprattutto rappresenta una minaccia a un sistema economico di cui ancora non possiamo prevedere le conseguenze sulla vita di ciascuno di noi. Questa situazione in cui fiducia e sfiducia si alternano scardinando l’idea stessa di comunità e di famiglia pone agli psicoterapeuti la domanda di come intervenire per aiutare gli altri che vivono questa crisi, perché noi psicoterapeuti non siamo fuori e liberi dalle stesse angosce.

IL TERZO CERVELLO potrebbe essere definito come la riconfigurazione che si viene a creare tra una soggettività e gli altri.

Il cervello che emerge dalla relazione con figure significative in positivo o in negativo.

Il cervello che si riconfigura nella massa mediante il contagio mimetico.

Le modifiche che avvengono in un soggetto sotto la pressione o le suggestioni di un altro o altri significativi.  

IL PRINCIPIO MIMETICO: è alla base di questi meccanismi, di queste variazione del se, e della trasformazione della percezione del se stesso.
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IL TERZO CERVELLO E L’INTELLIGENZA RELAZIONALE

Francisco Mele[1]

ARTICOLO PUBBLICATO IN “LA NOTTE STELLATA” , N 1, 2021

rivista di psicologia e psicoterapia diretta da Francesco Colacicco

Abstract : Il terzo cervello si configura tra due cervelli che interagiscono, che si incontrano o si respingono e si interinfluenzano positivamente o negativamente. 

I neuroni specchio del terzo cervello riflettono mediante un rapporto diadico il rapporto con l’altro in un processo mimetico all’infinito, nel quale è difficile fissare e scoprire chi ha iniziato per primo il processo interattivo[2].La definizione di cervello comporta il rischio di un riduzionismo biologista attraverso il quale si vuole spiegare l’essere umano.

LA BIOPSICOSOCIOLOGIA

A partire dagli studi di René Girard e di  Jean-Michel Oughourlian si è venuta a delineare una lettura molto particolare circa il comportamento delle persone nell’ambito  di un contesto  psico-sociale.

Questa lettura fonda le sue radici nella psichiatria soprattutto francese, punto di riferimento necessario per comprendere e integrare i tre cervelli: il cognitivo, l’emotivo e il relazionale.

Oughourlian insieme a Eugène Webb sostiene che si deve superare l’idea di un io-in-sé che si trova all’interno di un A autonomo, un io-in-sé inserito in un B autonomo, a favore di un io costruito e decostruito tra due. In ogni incontro con l’altro, l’ “io-tra-due” inizia a formarsi sin dall’infanzia. Ciascuno di noi è il risultato di una serie di gesti e di parole di altri che hanno influenzato il nostro sé nel corso della nostra storia. Andrew Meltzoff ha studiato l’imitazione infantile scoprendo che il bambino non solo imita i movimenti dello sperimentatore e lo esprime ad esempio nel movimento della lingua, ma soprattutto imita e presta attenzione all’intenzione dello sperimentatore. Queste scoperte, insieme a quelle del gruppo di Parma diretto da Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese circa i neuroni specchio, vengono dopo cinquant’anni a confermare l’ipotesi mimetica elaborata da René Girard. L’ipotesi è che il desiderio mimetico ai trova alla base di tutte le forme di rivalità genesi della violenza. Da quando mi ero occupato di criminologia lavorando in un ospedale giudiziario, in carcere e poi in istituti minorili la teoria di René Girard mi ha aiutato a trovare una risposta alla domanda, il perché della violenza sia a livello sociale che  nell’ambito familiare. La mia tesi dottorale aveva preso in considerazione i delitti in famiglia, studi che avevo realizzato tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. Senz’altro Girard, che non era né uno psichiatra né uno psicologo, aveva descritto, attraverso l’analisi di autori come Shakespeare, Dostoevskij , Proust, Molière, Camus e altri,  la genesi della violenza provocata dalla rivalità tra  personaggi letterari: gli artisti anticipano le scoperte scientifiche.[3]

Oughourlian sostiene che la mimesi costituisce una scoperta significativa per comprendere il rapporto che fa sì che i soggetti si avvicinino, entrino in conflitto e si respingano. Il principio mimetico sarebbe l’equivalente della legge gravitazionale scoperta da Newton che risponde alla domanda: cosa tiene uniti i corpi celesti, cosa impedisce che ciascuno parta ed esca dall’orbita, oppure cosa impedisce che la terra ad esempio non si scontri con la luna, e soprattutto risponde anche alla domanda sul perché gli esseri umani non cadono o non si staccano dalla terra.

Il principio mimetico è alla base dell’apprendimento della costruzione del sé e del rapporto interpersonale, ma in questa teoria del terzo cervello l’io non è una monade chiusa in sé che si rapporta ad altre monadi, ma è una costruzione in continuo rifacimento. Facilmente l’io può perdere consistenza nell’incontro con un altro o all’interno di una istituzione, oppure dissolversi in un incontro con i fantasmi del passato che lo assalgono o nello scontro con figure prepotenti. In questa prospettiva si delinea un tipo di relazione che non è inter-individuale, bensì inter-dividuale, perché nell’incontro dell’io con un altro io si viene a creare un movimento inter-influenzale per cui non si esce mai dal rapporto allo stesso modo di come si è entrati.

Quindi il desiderio mimetico si attiva, modifica e viene a condizionare i movimenti di ciascuno dei soggetti che partecipano alla relazione. La capacità di affrontare, comprendere e gestire i rapporti inter-individuali fa parte dell’intelligenza relazionale.[4]

Il terzo cervello non è un’entità autonoma dagli altri due; c’è una continua corrispondenza tra questi tre cervelli che si determinano a vicenda, e nessuno di loro può vantare un’autonomia propria.


Il concetto di cervello come sede della percezione e del ragionamento è stato elaborato negli ultimi tre secoli. Nel 1664, per primo Thomas Willis, del gruppo di Oxford, pubblica un trattato di anatomia ponendo l’accento sull’importanza del cervello in rapporto al movimento, alla cognizione, alla memoria e alla percezione. Da questo momento il cervello diventa oggetto di studio da parte di neurologi e psichiatri. Fino a questa data la sede della percezione, della cognizione e dell’anima era il cuore. Nella civiltà egizia, durante il processo di mummificazione del Faraone il cervello veniva estratto dal naso e buttato via. Era il cuore che veniva conservato. Per Aristotele il cervello serviva a raffreddare le passioni. Anche Leonardo da Vinci non teneva conto del cervello. Per Cartesio il corpo e l’anima si trovavano nella ghiandola pineale, luogo privilegiato che regola il ciclo circadiano che riguarda il rapporto tra la luce e il buio. Per gli esoterici la ghiandola pineale era la sede del terzo occhio inteso come la fonte che permette di vedere la vera realtà. Dopo la scoperta del cervello, questo diventa la sede di tutte le azioni e di tutti i pensieri dell’uomo. Dobbiamo aspettare le scoperte di Antonio Damasio e di George Ledoux per differenziare il primo cervello cognitivo, sede dell’intelletto, del ragionamento cosciente da un secondo cervello che questi autori hanno definito il cervello emotivo. Gli studi sul sistema limbico hanno permesso di collocare lì le emozioni, i sentimenti e i diversi stati umorali. Senz’altro ancora oggi si pensa che sentimenti ed emozioni appartengano al cuore. “Va dove ti porta il cuore” è la rappresentazione e la raffigurazione di un pensiero pre-copernicano. Come si vede le teorie scientifiche fanno fatica a sradicare convinzioni così forti come quelle a cui stiamo assistendo in quest’epoca della pandemia dove in piena esplosione del Covid ci sono delle persone che sostengono che si tratti di un’invenzione di un potere politico che vuole togliere le libertà. Prima di passare al concetto di terzo cervello è utile riflettere sul secondo cervello in quanto poter differenziare emozioni, sentimenti e stati umorali per poter essere in grado di attivare quello che Daniel Goleman ha definito “l’intelligenza emotiva” intesa come la capacità di “motivare sé stesso nel persistere e nel perseguire un obbiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e ancora, la capacità di essere empatici e di sperare”.

In questa teoria si afferma che abbiamo una mente che pensa e una che sente. Si tratta di due facoltà semi-indipendenti, in quanto si verificano due circuiti cerebrali distinti e interconnessi. La mente emozionale può travolgere la mente razionale. Il secondo cervello è costituito dal sistema limbico, che comprende la corteccia pre-frontale, in particolare la regione ventro-mediana del lobo frontale, l’ipotalamo, il giro, l’amigdala e le strutture della base del telencefalo. L’amigdala è la sede della memoria emotiva. Per Goleman ci sarebbero due tipi di memoria, una cognitiva, propria del primo cervello e una affettiva del secondo cervello. Da chiedersi se si ipotizza una terza memoria, relazionale, propria del terzo cervello. Senz’altro quando assomigliamo a qualcuno nei gesti, nella voce o nei pensieri. Come ad esempio il bambino adottato, che fa dire “si vede che ha preso tutto da suo padre”. 

Il primo cervello è dotato di un sistema specchio che sovrintende all’attività propria della neo-corteccia razionale. Anche il secondo cervello è dotato di un sistema specchio, che spiega l’empatia, la compassione, la trasmissione e il contagio e la condivisione dei sentimenti, delle emozioni e degli umori.

È utile differenziare le emozioni – lo stress, l’angoscia, la collera, la gioia, la paura, il disgusto ecc. – dai sentimenti – l’amore, l’odio, la tenerezza, l’invidia, la gelosia, il risentimento ecc. – dagli umori – l’euforia, le eccitazioni, la depressione, la letargia, l’esaltazione e la depressione, l’accelerazione o il rallentamento -. 

Nel rapporto con l’altro, con la natura e con sé stesso il soggetto sperimenta delle emozioni, dei sentimenti e degli stati umorali che chiamano in causa il primo cervello che dovrà giustificare o negare l’attivazione del secondo cervello. Oughourlian scrive che il secondo cervello e il primo offrono al terzo cervello il guardaroba che permette al desiderio di mostrarsi secondo diverse configurazioni. Alla base del desiderio mimetico ci sono l’azione e l’incontro con il mondo e soprattutto il passaggio dalla materia alla consapevolezza propria della coscienza. Attraverso il desiderio mimetico l’uomo neuronale diventa uomo sociale o politico nella terminologia di Aristotele. I precursori di questa teoria, secondo l’autore, sono soprattutto Spinoza e Freud. Spinoza scrive nel libro III dell’Etica intitolato Origine e natura degli affetti: “Se immaginiamo che qualcuno ami, desideri o odi qualcosa che noi stessi amiamo, desideriamo o abbiamo in odio, per ciò stesso noi ameremo, desidereremo questa cosa ecc. con maggior costanza(…) Per il fatto di immaginare che qualcuno ama qualcosa, anche noi ameremo la stessa cosa (…) gli uomini (…) hanno verso i loro simili maggior Amore o Odio che non verso le altre cose; e a questo si collega l’imitazione degli affetti”. “ Se immaginiamo che qualcuno goda di una cosa che uno solo può conquistare, faremo di tutto perché non la conquisti”.

Per Spinoza, l’affetto è un’azione e una passione, è ciò che i neuroni  specchio riflettono: le azioni e le emozioni dell’altro. Questo meccanismo in cui un soggetto cerca di strappare un oggetto a un altro che lo vuole, che in prima battuta poteva anche non interessargli, fa sì che il soggetto in questione faccia di tutto per averlo, come i bambini che vogliono sempre la palla o il giocattolo che l’altro bambino ha preso per primo.

Freud in “Psicologia della vita amorosa” descrive come una donna che non appartiene a nessuno è meno desiderabile di un’altra che è sposata e soprattutto di una donna di facili costumi.

La donna virtuosa difficilmente trova tanti amanti come la donna desiderata da tanti uomini.

La stessa cosa possiamo affermare nei confronti degli uomini che hanno successo con le donne. Più un uomo è desiderato da tante donne, più una donna viene attratta con l’intenzione di rubarlo alle altre, vissute come rivali. Freud lascia i suoi studi sulla teoria mimetica e, come afferma Girard, rimane alle porte della scoperta del desiderio mimetico che va oltre il complesso di Edipo che ha segnato il percorso della psicanalisi.

La psicologia interdividuale  costituisce una vera rivoluzione epistemologica perché riesce a studiare l’io secondo una prospettiva che tiene conto dell’inter-influenza. L’io è il risultato dell’azione dei meccanismi mimetici che si concentrano:  sull’apparire,sull’avere,sull’essere , sul desiderio del modello

Oughourlian afferma che l’ “io è continuamente e uniformemente ricostruito dal meccanismo mimetico in seno al rapporto interdividuale”.[5]Questa ipotesi si basa sugli studi di Antonio Damasio che afferma che il sé ha una base neuronale e si tratta di uno stato biologico ripetutamente ricostruito. Al riguardo scrive: “Vi sarebbero (…) stati successivi dell’organismo, ognuno con una rappresentazione neurale nuova, in mappe multiple  concertate, momento per momento, e ognuno tale da fissare il sé che esiste in quel momento”.Più avanti lo stesso autore sostiene che “lo stato del sé viene decostruito da cima a fondo in ogni momento: è uno stato di riferimento evanescente, di continuo ricostruito con tale coerenza che il possessore non se ne accorge mai”.

IL TEATRO COME LUOGO DI RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA

Sul meccanismo mimetico, René Girard trova nel teatro il luogo più interessante per analizzarlo e studiarlo. Il suo libro “Shakespeare – il teatro dell’invidia”  è un trattato pratico e teorico che mette a nudo il concetto di mimesi. Il teatro per tanti pensatori era considerato un luogo pericoloso in quanto la potenza della mimesi poteva influenzare lo spettatore sia nel volersi immedesimare con qualcuno dei personaggi oppure capire come la mimesi scopre i meccanismi propri del conflitto umano. In Italia il regista e maestro Orazio Costa sin dagli anni Quaranta inizia ad applicare la mimesi come strumento, metodo e tecnica per la formazione degli attori. In precedenza abbiamo sostenuto che l’arte anticipa le scoperte scientifiche. In questo senso il maestro Costa indica senza ancora aver teorizzato la via della mimesi come base per l’apprendimento.

Il metodo mimetico di Costa riporta anche la scoperta da parte di Gregory Bateson nei suoi studi sul comportamento animale, in cui due cani capiscono la differenza tra il giocare e il litigare, come se ci fosse l’indicazione “questo è un gioco”. Costa comincia a fare teatro giocando con i fratelli. Il metodo mimetico come metodo di apprendimento coincide anche con la massima di Bateson sull’imparare ad apprendere che si allontana dai metodi di imitazione da parte dell’allievo nei confronti del maestro o dell’attore definito “mattatore”. Nessun allievo di Costa assomiglia nel recitare al suo maestro[6]e neanche ai suoi compagni di corso; ciascuno sviluppa un proprio indirizzo giocando a scoprire e a scoprirsi come un io in continuo rifacimento. Questo metodo di insegnamento integra gli aspetti personali dell’attore e del gruppo che ha una funzione importante nel processo di apprendimento, perché quando, dopo i diversi esercizi, si arriva alla parola ovvero si fanno parlare i personaggi dell’autore,  a questo punto i tre cervelli sono interconnessi attraverso il metodo. Che il personaggio sia  la battuta mette in risalto la dinamica che si viene a creare tra gli attori che devono uscire da sé stessi per entrare in una dimensione dove ogni azione, verbalizzazione e movimento dipendono dal discorso degli altri personaggi, e anche lui in veste di personaggio influenza l’azione degli altri. In questo contesto nessuno può agire autonomamente. L’interpretazione di un personaggio va oltre il personaggio stesso in quanto ogni attore dà un proprio stile all’interpretazione. In ogni rappresentazione l’attore modifica sé stesso; un terzo elemento interviene, lo spettatore, che non è una figura passiva, ma interloquisce in relazione allo spettacolo attraverso il suo giudizio. L’attore ogni sera recita in modo diverso senza accorgersene, perché il pubblico è diverso e interloquisce in maniera differente. 

Il metodo mimetico è un buon esercizio non solo psicologico ma anche sistemico non solo per gli attori ma per chiunque voglia conoscere un modo di essere sé stesso in rapporto agli altri, e quindi a conoscere un meccanismo che appartiene a tutti gli esseri umani.

Questo metodo mimetico io stesso insieme a Maricla Boggio[7]l’ho applicato in una comunità terapeutica per doppia diagnosi nel Torinese[8], permettendo ai partecipanti di sperimentarsi in relazione profonda con gli elementi della natura: il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra, come lavoro singolo e di gruppo. 

Il lavoro realizzato da Orazio Costa sull’“Amleto”[9]è stato una vera prova rivoluzionaria nella formazione degli attori perché ha messo in luce il rapporto stretto tra il frammento e il tutto, tra l’individuo e il sistema. Ogni attore non solo studiava la sua parte, ma doveva anche interpretare tutti i personaggi del testo shakespeariano. Questa modalità permette a ciascuno di rispondere alla questione relativa a come io mi vedo, come credo che gli altri mi vedano e come in realtà io sono. Poter uscire dal personaggio scelto per interpretare l’altro e a sua volta in coro ogni personaggio è uno sforzo enorme di identificazione e di dis-identificazione. Si tratta quindi, per analogia, di non rimanere cristallizzato in uno dei tanti personaggi che nella vita rappresentiamo secondo i contesti in cui ci muoviamo. Non siamo gli stessi quando si va al lavoro o quando di notte si gira nella movida della città o in discoteca. A volte è difficile riconoscere la stessa persona che al mattino troviamo a servirci al banco del forno dove andiamo a comprare il pane e vederla di notte con gli amici in una piazza affollata. Tanti attori hanno confessato la difficoltà che trovano nel doversi staccare da un personaggio dopo una lunga frequentazione con esso.

L’esercizio costiano utilizzato nelle prove dell’”Amleto”[10]è durato due anni improntati al metodo mimetico e altri due relativi alle scene della tragedia, per poi debuttare al Festival di Taormina.

Uno degli attori ci ha raccontato la tensione di ciascuno di loro perché alla prima nessuno sapeva quale ruolo avrebbe interpretato. A ciascuno degli attori prima di entrare in scena Costa assegnò il personaggio o la situazione corale che avrebbe dovuto sostenere. 

L’intuizione del metodo mimetico da parte del maestro Costa coincide con gli studi di René Girard e dei suoi collaboratori come Guy Lefort e Jean-Michel Oughourlian, ma soprattutto può essere spiegata a livello biologico a partire dalla scoperta dei neuroni specchio. Sarebbe interessante anche studiare con le tecniche delle neuro-immagini come si attivano i diversi cervelli negli attori che a turno passano da un personaggio all’altro. In sintesi, l’esercizio permette a ognuno di uscire da sé, guardarsi da un altro punto di vista e tornare a sé. Allo stesso modo fanno gli astronauti quando dall’alto scoprono la terra che tutti noi non riusciamo a vedere pur restando su di essa. Ci sono volute centinaia di anni di ricerca per scoprire che l’oggetto che permette il pensiero – il cervello – si rendesse conto che è prodotto da esso.

LE DECLINAZIONE DELL’ALTRO  Il modello, il rivale, l’ostacolo

Oughourlian, seguendo Girard, differenzia il desiderio mimetico che si può posizionare sull’apparire,  nel senso di voler copiare il modello preso in considerazione, oppure sull’avere, nel senso di volersi appropriare di quello che il modello ha, e che è una fonte di conflitto.

Invece il posizionarsi sull’essere dell’altro può avere un effetto positivo in quanto si tratta di immedesimarsi in un modello che ti in-segna come imparare ad imparare. Ma voler essere come il modello può costituire una minaccia nel desiderio di sostituirlo e di occupare il suo posto. Il conflitto fra il maestro e l’allievo prediletto può a volte sfociare in una rottura senza riconciliazione. L’altro aspetto del desiderio è quello di osservare e rispondere al desiderio del modello stesso. Il soggetto segue il desiderio del modello con gioia quando gli viene indicata una strada percorribile. Invece il desiderio del modello può diventare un ostacolo per il raggiungimento di tale desiderio, perché il soggetto può entrare in una situazione di opposizione nel seguire quello che il modello gli indica. 

Quando il desidero assume l’altro come modello senza che ci sia rivalità, siamo nell’ambito dell’apprendimento e dell’amicizia: situazioni di imitazione-suggestione reciproca e continuativa. Per questo gli amici scelgono e desiderano le stesse cose. Nel processo dell’apprendimento partecipano sia l’allievo sia il maestro. Il termine “cursore mimetico” di Oughourlian è uno strumento utile per segnalare quale delle tre declinazioni dell’altro predomina nella relazione interdividuale. 

La relazione mimetica riverbera i suoi effetti sui cervelli corticale e limbico. Come abbiamo segnalato prima, il soggetto prenderà – come scrive Oughourlian – gli abiti dal guardaroba del primo cervello per giustificare le sue azioni con razionalizzazioni economiche, politiche, morali o religiose. Invece dal guardaroba del secondo cervello – prosegue a scrivere l’autore –  il soggetto indosserà i vestiti che hanno a che vedere con le emozioni, con i sentimenti e con gli stati d’animo.

La teoria mimetica è un contributo notevole per comprendere l’intelligenza collettiva che nella maggior parte dei casi riesce ad annullare quella individuale per imporsi senza possibilità di replica e di contestazione da parte dell’individuo. Lo studio sulla psicologia delle folle ha in Gustave Le Bon uno dei suoi più importanti autori; ma anche gli apporti di Freud, Erich Fromm e Hanna Arendt  sono stati illuminanti per comprendere  la nascita dei regimi totalitari. Non a caso Le Bon, ammiratore di Freud, paradossalmente diventa uno degli autori prediletti di Mussolini che, avendo compreso il meccanismo dell’induzione mimetica, riesce a governare le masse e a indicare loro il proprio desiderio.

Il terzo cervello è la piattaforma ideale di tutti gli scambi mimetici generata dal sistema specchio e costituita da migliaia di imitazioni e suggestioni che circolano continuamente dal cervello A e dal cervello B che a loro volta vivono in un continuo interscambio con altri cervelli, si rapportano a tante entità materiali e culturali in modo tale che, come sostiene l’autore, ciascuno di noi è un patchwork nel quale è scritto e segnato tutto il processo delle inter-influenze vissute. Il sistema specchio fa del terzo cervello una macchina di imitazione.

LA PEDAGOGIA PERSECUTRICELe memorie del presidente del Tribunale di Cassazione tedesco di Dresda, Daniel Paul Schreber, ha permesso a Freud di teorizzare sulla struttura della paranoia. Il presidente Schreber inizia a delirare e viene ricoverato in clinica nel momento in cui assume il potere massimo del sistema giuridico. Non è stato paziente di Freud, ma da queste memorie si costruisce una teoria che permette di dare una spiegazione a un disturbo mentale – la paranoia – che ha colpito una persona come Schreber, che sul primo cervello aveva raggiunto il più alto livello. Le ipotesi alla base del disturbo partono dal rapporto del malato con suo padre. Queste affermazioni vengono poi confermate con delle ricerche a posteriori fatte da altri studiosi, come Morton Shatzman, nel libro “La famiglia che uccide”, e Alice Miller autrice de “La persecuzione del bambino”. Nel nostro lavoro ci interessa comprendere l’influenza negativa di questo padre su di un figlio che a un certo punto della vita, nel momento massimo del suo successo,  comincia a delirare. Il padre di Schreber, Daniel Gottlieb Moritz, medico e pedagogista, aveva ideato un sistema educativo conosciuto come “schrebergarten”, che era diventato famoso in Germania nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Occorreva seguire un modello ideale che mettesse in risalto la resistenza fisica e psichica degli studenti. Il pedagogista aveva cominciato a provare il suo metodo con i suoi tre figli. I bambini dovevano esercitarsi a una rigida formazione che cominciava sin dal mattino, imponendo loro di mantenere un corpo diritto, e poi di affrontare il freddo con la forza della volontà; continuava con l’atteggiamento di rigorosa rigidità che i bambini dovevano mantenere a tavola. A pranzo e a cena non potevano appoggiare i gomiti sul tavolo, venivano loro imposti dei bastoncini metallici appuntiti che gli impedivano di abbassarli quando stavano mangiando. Per mantenere la schiena diritta venivano messe due sedie dove in una il bambino appoggiava i piedi e nell’altra la testa: era quindi obbligato a mantenere una posizione rigida. A causa di questa educazione uno dei figli, Daniel Gustav, si suicida e gli altri due diventano pazzi. I maschi avevano lo stesso nome del padre; il primo aveva studiato medicina e poi legge, il secondo diventa un importante giurista. Il problema è che generazioni di studenti in Germania e in altri paesi europei sono state in tante scuole sottomesse al modello pedagogico, così uniformante che  si può ritenere che forse il nazismo sia stato preparato sui banchi della scuola molto prima della sua affermazione politica.. 

La rivalità tra Nietzsche e Wagner[11]  In quanto al rapporto con il modello-ostacolo, la storia tra Nietzsche e Wagner è incalzante. Nietzsche, ne “La nascita della tragedia”, esprime un’ammirazione esagerata nei confronti di Wagner; lo riconosce come il suo modello assoluto insieme a Schopenhauer. Nelle sue lettere, sostiene che i momenti più belli della sua vita sono legati al nome di Wagner. Dal musicista tedesco, Nietzsche non è stato mai apprezzato. In questa rivalità, anni dopo, il filosofo, che anche lui aveva pretese di scrivere musica, comincia a criticare il maestro e non sopporta che la sua fama cresca sempre di più. Il collasso psicologico avviene quando Nietzsche si trova senza allievi, e a questo punto accusa Wagner di essere la causa della sua malattia. In questi scritti il filosofo afferma che non si deve seguire nessun maestro tranne che sé stessi. In una lettera a Paul Rée e  Andrea Lou Salomé  sostiene che l’arte del maestro ha degenerato nel suo “Parsifal”. Da quel momento della sua malattia, Schopenhauer e Wagner diventano i suoi antagonisti. L’altalena fra ammirazione e condanna lo ha fatto sprofondare nel delirio scrivendo nel 1888 all’amico  Karl Fuchs: “Dopo che è stato licenziato il vecchio Dio, sarò io d’ora in poi a vegliare nel mondo”. Dato che i tedeschi – sostiene il filosofo- sono stupidi nell’ammirare Wagner e a non capire la sua grandezza, in una lettera alla sorella Elizabeth scrive che la sua opera sarà apprezzata all’estero. Rimane un mistero per tutti noi come “delle personalità al limite” in tanti campi, dalla politica alla filosofia all’arte, abbiano avuto tanto riscontro nel trascinare delle persone verso convinzioni che confinano con la paranoia. La lista è interminabile. Forse il folle riesce a viaggiare nella profondità dell’anima e a estrarre dei pensieri talvolta geniali. Azione che fa sì che ciascuno prenda quei pensieri, li elabori, li critichi o li segua senza distanziazione. Il saggio dovrebbe essere colui che va a cercare nelle profondità del sé e tornare alla superficie senza perdere il senso di realtà.

Le dipendenze patologiche

Altre forme di disturbi che si trovano nell’ambito dell’intelligenza relazionale interdividuale e mimetica sono l’anoressia, la bulimia, la tossicodipendenza e altre manifestazioni di dipendenza affettiva o tecnologica.

L’anoressica sconvolge –sostiene Girard- il bisogno e l’istinto; si tratta di un chiaro esempio di rivalità mimetica. Si tratta di una lotta a morte con un modello di donna che la pubblicità non risparmia di riproporre sistematicamente come un fatto da imitare. L’anoressica prende sé stessa in ostaggio, per piegare la volontà altrui alla propria. La mia interpretazione, di collegare la diade anoressia-bulimia alla paura della guerra, della peste, delle tempeste climatiche, mi porta a una elaborazione metaforica al riguardo. Quando scoppiano delle crisi sociali o naturali, assistiamo alla corsa sfrenata per acquistare viveri in quanto la paura di morire di fame è atavica. In pochi giorni, quando arriva magari un tornado, i supermercati si svuotano e le case si riempiono di cibo. Allo stesso modo forse il bulimico accumula energie nel corpo pensando che nel momento di crisi può consumare i suoi grassi. L’anoressico si allena a non avere fame e quindi, quando capita una crisi, teoricamente non soffrirebbe l’angoscia di morire di fame: si è allenato tutta la vita. Un’altra forma più sottile di guerra interdividuale è quel tipo di anoressia bulimica che porta il soggetto a svuotare il frigo ogni sera per poi vomitare tutto il cibo, lasciandone privi gli altri. Allo stesso modo i contadini russi quando all’avanzata delle truppe naziste avevano bruciato le scorte degli alimenti. 

Interpretare le dipendenze secondo la teoria del terzo cervello significa tener conto della lotta che ciascuno affronta tra dipendenza e distacco dal processo interinfluenzale che caratterizza ogni rapporto interdividuale. La differenza, ad esempio, tra cocainomane ed eroinomane in rapporto al tema della competizione con il rivale riesce a eliminare  e a introdurre il sentimento di invidia. Il cocainomane, che vive in continua rivalità con un altro significativo oppure con tutti, ha bisogno della sostanza “in-sostanza” per entrare in gioco e cercare di eliminare e battere gli altri. L’eroinomane abbandona la lotta prima di cominciare, ma questo non significa che abbia superato il sentimento di invidia che lo attanaglia. Il fumatore di hashish o di altra forma di droga cerca di annebbiare il rapporto interdividuale, ma il fumo è anche un messaggio che rivolge a qualcuno che dovrà essere in grado di interpretare perché dove c’è fumo c’è fuoco; vuol dire che il terapeuta, rivolgendosi a quelle energie che stanno sotto, può attivare e riconoscere la lotta del soggetto per sopravvivere.

Conclusioni: questa pandemia mette in crisi l’individuo, la società, la famiglia e soprattutto rappresenta una minaccia a un sistema economico di cui ancora non possiamo prevedere le conseguenze sulla vita di ciascuno di noi. Questa situazione in cui fiducia e sfiducia si alternano scardinando l’idea stessa di comunità e di famiglia pone agli psicoterapeuti la domanda di come intervenire per aiutare gli altri che vivono questa crisi, perché noi psicoterapeuti non siamo fuori e liberi dalle stesse angosce.  Una figura significativa è stata Victor Frankl che nel campo di concentramento dove era rinchiuso è stato capace di aiutare tutti quelli che si rivolgevano a lui in quanto psicoterapeuta. Stiamo vivendo gli stessi problemi che vivono i nostri pazienti. Qui si mettono in moto le nostre competenze e soprattutto si sfidano le nostre diverse intelligenze: quella cognitiva, quella emotiva, l’intelligenza relazionale e soprattutto l’intelligenza spirituale, che non è legata a una particolare confessione religiosa. Essa è la risposta che mi do, prima come essere umano e poi come psicoterapeuta in relazione a tre domande fondamentali: Cosa significa per me la morte? Ha per me un senso la vita?  Come vivo il passaggio del tempo?  Dopo quasi un secolo Karl Jaspers ci può venire incontro: lui, che ha vissuto la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale avendo una vita limitata dovuta a una malattia fin dall’infanzia, diceva che davanti alla morte siamo soli. Nella ricerca dell’essere sé stesso, Jaspers affronta il tema della libertà, ma soprattutto lo scontro delle situazioni limite in cui ciascuno riceve in contraccambio un rimando alla domanda dell’immanenza e della trascendenza. Davanti alla situazione limite dov’è l’uomo: nella natura, nel cielo stellato, o nella storia? L’angoscia di trovare quel muro della situazione limite che ci fa sentire che la terra si muove sotto i nostri piedi è sicuramente una delle esperienze più drammatiche. Quelli che, in questo periodo di Covid, sono tornati dai ricoveri dopo essere stati intubati per un periodo e attaccati all’ossigeno, non riescono a trovare parole per descrivere quello stato. Scrive Jaspers: “Noi diventiamo noi stessi, entrando a occhi aperti nelle situazioni limite”. Entrare con gli occhi aperti, con il pensiero lucido, da soli, è una sfida che sicuramente pochi mesi fa nessuno di noi avrebbe immaginato che potesse accadere.

Tanti che sono andati a curarsi negli ospedali si sono trovati a dover affrontare un percorso che nei sogni più angoscianti forse molti di loro non avevano mai vissuto. In questi casi, di fronte alla tragedia di non poter ricevere un minimo di conforto da qualcuno che si potesse toccare, vedere o sentire, sembra di dover dare ragione al pensiero del grande psichiatra tedesco. Per ultimo, secondo me, il lavoro psicoterapeutico dovrebbe essere concentrato in questo periodo nel sostenere emotivamente e psicologicamente il personale sanitario che sta affrontando questa pandemia.[12] 


[1]Francisco Mele, Psicoterapeuta, Ph.D in psicologia clinica, Didatta del Centro Studi di Psicoterapia Familiare, docente di Sociologia della Famiglia presso l’Istituto Progetto Uomo sede aggregata dell’Università Pontificia Salesiana.

[2]Nella prospettiva del terzo cervello si può ipotizzare che “Il terapeuta  abbia la possibilità di guarire grazie al paziente”Frase che avevo messo in evidenza nel mio studio di Terapia Familiare al CeIS  -Centro Italiano di Solidarietà – di cui sono stato responsabile per più di trent’anni.

[3]La nascita del termine psicologia può essere fatta risalire al XVI secolo, con il tedesco Filippo Melantone, latinista e grecista. Per lui la psicologia era l’insieme di conoscenze filosofiche, letterarie e religiose sull’animo umano. Per inciso il termine del Melantone fu psychologia, e comparve nelle opere dei suoi discepoli Rodolfo GoclenioPsychologia (in greco) hoc est de hominis perfectione (1590),[4](Wikipedia)

[5]Jean-Michel Oughourlian, “Il terzo cervello. La nuova rivoluzione psicologica”, Marsilio, Venezia 2014. Pg. 82

[6]Allievi di Orazio Costa sono stati: Ninno Manfredi, Monica Vitti, Gian Carlo Gianni, Gian Maria Volonté, Andrea Camilleri, Luca Ronconi, Gabrielle Lavia, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Fabrizio Gifuni, Pierfrancesco Favino. 

[7]Maricla Boggio, drammaturga, allieva del maestro Costa e poi insegnante all’Accademia Silvio D’Amico, ha pubblicato 5 libri sul metodo e ha realizzato dei film per la Rai, che si possono consultare sul sito  www.mariclaboggio.it 

[8]Comunità Terapeutica Fermata d’autobus, fondata e diretta da Raffaella Bortino. 

[9]Orazio Costa ha lavorato su “Amleto” di William Shakespeare con gli allievi dell’Accademia Nazionale d’arte Drammatica “Silvio D’Amico” addestrandoli alla mimica per due anni e per altri due anni provando l’intero testo sia con gli attori singolarmente che in coro. Maricla Boggio,  “Orazio Costa prova Amleto”, Bulzoni, Roma 2008. 

[11]Consultare F. Mele sul sito www.psicologiacritica.it“La rivalità tra Niezsche e Wagner” e “Guglielimina Walter pronipote di Wagner”. Guglielmina, pianista, è stata una delle prime paziente che vidi quando iniziai a 19 anni a frequentare come volontario e poi tirocinante un manicomio femminile a Buenos Aires. 

[12]Consultare sempre su www.psicologiacritica.it“Gli anticorpi spirituali”. Il Caduceo di Macrobio simbolo della medicina e della farmacia”. 

Bergoglio en Santa Maria de los Buenos Aires

Nella mente di un Papa
Titolo: Cercanía espiritual y cultural al ‘Padre Jorge’, hoy Papa Francisco
Intervista a Francisco Mele
RADIO VATICANA EN LENGUA CASTELLANA
2 ottobre 2013

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Home > Iglesia > Noticia del 2013-10-02 12:49:29
(RV).- Un amigo fraterno en Cristo. La formación integral del hombre. Hay que diferenciar entre sabiduría y acumulación de conocimientos. Impulsar la cultura del encuentro también entre las generaciones. Que el mundo de la cultura no se quede aislado, que el saber no se quede lejos del hombre. El Papa Francisco exhorta también a escuchar a los jóvenes. Educación ‘personalizante’. En Cagliari, al terminar la Visita Pastoral del Papa Francisco, entrevistamos al doctor Francisco Mele, que nos habla de su cercanía espiritual y cultural al ‘Padre Jorge’ – Jorge Mario Bergolio, hoy Papa Francisco –. Ha sido catedrático de Piscología, en la Universidad del Salvador, de los jesuitas en Buenos Aires – cargo que desempeñó algunos años antes el P. Bergoglio, cuyo rector, el P Quiles, fue maestro de noviciado y de Filosofía del Papa.
El doctor Francisco Mele es psicoterapeuta, actualmente vive en Roma, trabaja en el ‘Proyecto Hombre’ y enseña en una filial de la Universidad de los salesianos en Viterbo. En esta entrevista reflexionamos sobre el encuentro con el mundo de la cultura en el Pontificio Instituto Teológico de Cagliari, en el que el Papa hizo hincapié también en la importancia de la fe y la razón, acompañados por Jesús, para no reducir al hombre a simple ‘material humano’. Y en la universidad como lugar de sabiduría, que tiene una función muy importante para alimentar la esperanza, para renovar la sociedad verdaderamente. ‘Hay que diferenciar entre sabiduría y acumulación de conocimientos’… ‘El Dios con nosotros, nos acompaña tenemos que aprender a escucharlo, que la esperanza sea siempre la luz que ilumina el estudio y el empeño’. ‘Poner el saber al servicio de la cultura de la vida. La responsabilidad de la ciencia y la ética’. En Cagliari el Santo Padre puso en guardia, una vez más, contra la idolatría del dinero, por encima de la dignidad humana, el doctor Mele señala que ‘el ídolo esclaviza, mientras que Dios Padre respeta nuestra libertad’.
(CdM – RV)

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El rostro de la cruz y la inteligencia espiritual

de Francisco Mele

“SI NO VES EN UN ÁRBOL TODO EL BOSQUE, TAMPOCO VES EL ÁRBOL

NI EL BOSQUE” (Raimon Panikkar)

SI NO VES EN UN HOMBRE TODA LA HUMANIDAD, NO VES AL HOMBRE NI LA HUMANIDAD.

Publicado el 21 de febrero de 2020 


 Cada uno de nosotros está invitado a llevar su cruz, una metáfora muy difundida en el pueblo porque “llevar la cruz” significa asumir el sufrimiento inherente a la vida misma.

¿Qué significa la cruz que cada uno de nosotros debe llevar?

Si la cruz es muy pesada, los que tienen que cargarla son aplastados por ella, y por lo tanto la metáfora se pierde, porque una persona aplastada en el suelo no es capaz de cargar nada.

En el Evangelio, Simón el Cirineo ayuda a Cristo a llevar la cruz: cada uno de nosotros necesita que alguien le ayude a llevar su cruz, pero algunos rechazan la ayuda.

De la misma manera debemos ser conscientes de la situación en la que podemos ayudar a alguien o dejar que se hunda.

El valor de la cruz tiene un fuerte valor simbólico en la cultura de la tradición cristiana: en ella el plano vertical conecta la dimensión del cielo con la de la tierra, o la luz con la oscuridad, la espiritualidad con la carnalidad; el plano horizontal representa los brazos con los que el hombre rodea el mundo.

 El cuadrivio existencial

Durante años he trabajado, tanto en el campo de la psicoterapia como en el de la enseñanza, para desarrollar un esquema que he llamado “cuadrivio existencial”: tiene la forma de una cruz, en la que los planos vertical y horizontal se cruzan en diferentes niveles según la historia de cada uno.

El eje vertical se refiere a la relación asimétrica entre el sujeto en posición dominante y el sujeto en posición subalterna: en Hegel es la dialéctica representada por la relación del amo y el esclavo..

En resumen, el esquema representa la relación de una persona dentro de la jerarquía tanto en posición de poder como en posición de mando.

El eje horizontal se refiere a la relación intersubjetiva al mismo nivel entre hermanos, amigos, colegas, compañeros de escuela o de juego, etc.

El diagrama de la cruz se presenta en tres figuras que se superponen sin anularse entre sí.

En la primera figura la persona se enfrenta a sí mismaa la esfera familiar íntima, la de la amistad o la enemistad.

En la segunda figura se retrata la esfera íntima, pero en la configuración que nos devuelve a los hogares, cómo ha vivido el sujeto en las casas de sus padres, qué sentimientos evocan; la relación con sus propias casas; cómo ha vivido en relación con las casas de los demás.

La tercera figura investiga la relación del sujeto con las institucionesespecialmente aquellas que han intervenido en la construcción de su propia identidad, como la escuela, la universidad, el trabajo, la parroquia u otros lugares de culto y reuniones juveniles.

Estas instituciones pueden definirse como “proveedores de identidad”. En el espacio de las instituciones se destacan con mayor fuerza los lugares del yo y los lugares del no yo.

En el primero, el “yo” lleva a cabo su propio proyecto dentro de un proyecto social institucional.

En segundo lugar, el sujeto es en cambio subyugado y a veces injustamente penalizado.

Esta tercera figura reproduce la tríada de la ética de la personalidad definida por Ricoeur como “la autoestima, el encuentro con el otro dentro de las instituciones adecuadas”.

 El cuadrivio existencial comprende cuatro cuadrantes. Uno de los dos cuadrantes superiores,el de la derecha, tiene que ver con las personas que nos han ayudado a llevar el peso de nuestra cruz: es una galería de rostros positivos de nuestra historia.

COME GESù FANCIULLO AI VECCHI DEL TEMPIO

L’orchestra dei bambini al Monastero di Santa Caterina d’Alessandria, Palermo

 

COME GESÙ FANCIULLO AI VECCHI DEL TEMPIO

Francisco Mele

Postfazione al  libro di  MARICLA BOGGIO   “LA SCALA DEGLI ANGELI Viaggio fra i ragazzi dell’orchestra quattrocanti di Palermo”

EDIZIONI CLIO, PALERMO UNIVERSTY PRESS 2021

 La musica e il fenomeno saturo

Jean-Luc Marion affronta l’evento che non può essere incasellato in un concetto, quindi definito e oggettivato.

Questo evento è il fenomeno saturo, non riproducibile per volontà del soggetto ma imprevedibile in quanto lo stesso soggetto rimane sorpreso e senza parole.

Le caratteristiche di questo fenomeno sono l’essere inguardabile, insostenibile e insopportabile perché il fenomeno saturo si avvicina al concetto già sviluppato da Kant, da Schelling e da Rilke quando cercano di definire il sublime in rapporto a una filosofia dell’estetica sulla bellezza.

Il bello – scrive Rilke– è il tremendo che il soggetto può sopportare:

”Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere

degli Angeli? E se anche un Angel ad un tratto

mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte

mi farebbe morire. Perché il bello non è

che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora,

lo ammiriamo anche tanto, perché esso calmo, sdegna

distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo”.

 Rainer Maria Rilke    Elegie duinesi

Secondo Marion, un primo elemento viene fuori dal fenomeno che si presenta senza avvisare. Si tratta dell’eccesso, inteso come quella luce accecante che impedisce al soggetto di vedere. Mosè non riesce a vedere sul monte Sinai il volto di Dio, ma riesce ad ascoltare la sua voce. L’eccesso della luce può essere anche rifiutato dal soggetto coinvolto, considerandolo come un difetto della vista. Qui si pone la questione della differenza fra il vedere e il guardare, come il Tiresias cieco riesce a vedere quello che i suoi contemporanei non vedono.

Si può anche estendere la questione sul piano dell’udito? Beethoven aveva perso la possibilità di sentire, ma riusciva ad ascoltare la musica che andava creando: egli viene così a rappresentare l’esempio che a livello teologico è definito uno dei sensi spirituali.

Von Balthasar, nel suo trattato “Lo sviluppo dell’idea musicale”, considera la musica “la forma che ci avvicina di più allo spirito, il velo più sottile che ci separa da lui… Esso è un punto limite dell’umano e a questo limite comincia il divino”.

Davanti al fenomeno saturo, il soggetto rimane abbagliato. Ma quando ci riferiamo all’ordine dell’udito, quale concetto può rappresentare il fenomeno dell’abbagliamento che lascia il soggetto senza un oggetto e quindi anche a rischio di svanire lui stesso?

Il fenomeno saturo che non si presenta come oggetto sfugge alle categorie dell’intelletto che vorrebbero oggettivarlo. È in linea con il concetto di sublime in Kant, perché non ha né forma né ordine.Questo fenomeno appare nelle diverse forme dell’arte, come evento e soprattutto nel volto dell’altro nella terminologia di Lévinas.

Il volto dell’altro è la resistenza alla mia volontà di dominio.

Il soggetto davanti al fenomeno saturo deve rinunciare alla sua volontà di manipolazione dell’oggetto. La sua passività attiva lo aiuta ad accogliere il dono che gli viene offerto in forma insperata. Allo stesso modo che un soggetto può sostenere lo sguardo dell’altro senza soccombere, egli può ugualmente sostenere il suono che gli arriva dall’altro.

Definire il suono è distinguerlo dal rumore, perché la musica è la scienza che attraverso delle leggi precise organizza il rumore in un ordine. Il fenomeno saturo ha a che vedere con l’intuizione, con l’intelligenza spirituale che permette al soggetto di riattivare i sensi spirituali, aprendo così quella capacità comprensiva in cui il tutto si legge nel frammento e il frammento nel tutto.

L’insight è la capacità di capire subito senza ricorrere al ragionamento chiaramente espressa del pensiero di Raimon Panikkar :

“ Se non vedi nell’albero la foresta non vedi né la foresta né l’albero”, frase che possiamo riportare sul campo dell’umano affermando che se non vedo nel volto dell’altro l’intera umanità della quale faccio parte non vedo né l’umanità né l’altro, quindi accecato non dalla luce in eccesso ma dall’ignoranza che non mi permette di vedere e di vedermi negli altri. In questa linea l’altro viene vissuto come oggetto e ostacolo alla mia volontà di dominio.

L’orchestra ha questo potere, come il coro, di produrre la distinzione tra l’unità e la differenza; permette, in questo modo, di essere parte di un tutto senza perdere e perdersi come identità personale. La musica ha la capacità di creare un doppio binario di entrata nella propria interiorità e di uscita verso una trascendenza che fa sì che più mi avvicino al mio centro di personalità, più mi avvicino sul lato opposto alla sfera del divino.Questa doppia via che integra e mette insieme i due elementi della terra e dello spirito può rivoltarsi in un senso opposto e in questo modo scardinare svuotando l’anima dell’uomo.

Il doppio senso della musica dovrà essere letto secondo la terminologia di Derrida quando elabora con diversi significati il concetto di farmaco. Pharmakon ha una doppia valenza: è veleno e rimedio. La medicina dell’anima – la musica – presa in dose estrema diventa un veleno. Da qui la diffidenza che avevano tanti filosofi nei confronti della musica come l’avevano nei riguardi della scrittura.

Socrate avverte il pericolo della scrittura perché il soggetto rischia di non esercitare più la memoria. Theut va alla corte del re egizio Thamus, e gli rivela il calcolo, la matematica e la scrittura. Thamus avverte il pericolo di tali scoperte, sostenendo che dio non ha bisogno di scrivere: parla, dice e detta la sua parola, mentre le persone che usufruiscono di tali rivelazioni vengo a mancare di quella capacità di ricordare e riportare che avevano in precedenza, quando non si facevano aiutare dalla scrittura.

Grazie a Guido d’Arezzo la musica ha avuto la possibilità di trascendere la trasmissione orale. Purtroppo di questo inventore del pentagramma si parla poco, non fa parte del mito perché, forse, non c’erano controindicazioni nei confronti della musica scritta. In virtù di questo sistema si può ascoltare e riprodurre Bach, Vivaldi, o Mozart.

Un’analisi linguistica può aiutare a comprendere le similitudini e le differenze tra un testo scritto in ambito letterario e un testo musicale.

I linguisti – fra cui von Humbolt, Charles Sanders Pierce, Ferdinand de Saussure in Europa, e John Searle e John Austin in America – hanno differenziato il segno dal simbolo. Soprattutto quello che ci interessa maggiormente è la differenza fra il segno privo di significato apparente e il segno rivolto a qualcuno che sia in grado di possedere gli strumenti per leggerlo e interpretarlo.

Il segnale a differenza del segno ha un carattere di intenzionalità perché in esso esiste una forte corrispondenza con l’oggetto definito dai linguisti come referente. Tra il segnale del fumo e il fuoco – ad esempio – esiste una forte corrispondenza, come tra le nubi dense e la tempesta che sta per scatenarsi. Analogamente esiste una corrispondenza fra il fulmine e il tuono, che si produce subito dopo. Dal piano visivo dei due primi esempi, in questo terzo esemplifichiamo un fenomeno sul piano acustico. Ma il concetto di intenzionalità in Husserl è riguarda l’azione di dire qualcosa su di un fenomeno a qualcun altro.

La musica partecipa e contiene questi tre elementi – il segno, il segnale, il simbolo -: un rumore senza direzione è un segno; un segnale potrebbe essere letto come un suono organizzato con una destinazione verso qualcuno che sia in grado di ascoltarlo; un simbolo usufruisce di una memoria, ed è stato elaborato per suscitare determinati sentimenti, che sono espressi da chi appartiene all’ambito  di tale memoria: l’inno di Mameli suscita sentimenti patriottici, “Faccetta nera” suscita contrastanti e polemiche reazioni; l’inno alla gioia di Beethoven vorrebbe rappresentare l’animo europeo.

Jankélévicht Vladimir  nel suo libro sull’ironia mette in atto una lettura particolare sulla musica, consigliando di pensare musicalmente.

 

Tra il simbolo della casa e la casa come costruzione non esiste una corrispondenza diretta, come per quanto riguarda i segnali. Si tratta di un prodotto linguistico arbitrario, convenzionale, legato a una lingua determinata: la casa come costruzione può essere rappresentata da parole diverse, a seconda della cultura, della lingua, dell’epoca ecc. L’orchestra non è soltanto una scuola che insegna ai ragazzi a suonare uno strumento, ma a comprendere i codici di interpretazione e di lettura della simbolica musicale.

Attraverso il suo metodo di insegnamento della musica, il maestro Abreu ha offerto ai ragazzi la possibilità di imparare a suonare uno strumento e di riunirsi nella costituzione di un’orchestra; il suo intento principale è stato quello di tendere alla formazione della personalità del ragazzo, prima ancora che valorizzare la sua capacità di suonare. Lo stesso intento ha avuto, nel suo insegnamento in Accademie, università e scuole teatrali, il maestro Orazio Costa con il suo metodo mimesico: formare una persona, e poi formare un attore[1].

Lo spazio della libertà creativa nell’esecuzione musicale

La scrittura in questo caso musicale dà all’interprete uno spazio di libertà creativa ed è per questo che ogni interpretazione è diversa da un’altra, non soltanto considerando l’interprete diverso da ogni altro, ma le sue stesse interpretazioni diverse nel corso del tempo e rispetto alle circostanze.

Paul Ricoeur nella sua analisi del racconto evidenzia il conflitto delle interpretazioni che avviene nei confronti di un testo letterario o di un’opera teatrale. Per Ricoeur l’interpretazione rappresenta l’atto che viene a concludere l’opera artistica in quanto mette in risalto tre livelli della creazione artistica che lui definisce “i tre livelli della mimesi”. Il primo livello riguarda il vivere, l’essere nel mondo in un rapporto precomprensivo non mediato dalla riflessione distanziante, anche se non è un vivere “accecato” e ingenuo. Il secondo livello ha a che vedere con l’azione dell’artista, che si innalza dal livello dell’immanenza per trovare, attraverso l’immaginazione creativa, la costruzione della sua opera. Il terzo livello riguarda la lettura: essa completerebbe l’opera letta. Continua a leggere