L’IDENTITA NARRATIVA SECONDO RICOEUR

  

                                          MEMORIA E 0BLIO NELLA FAMIGLIA

di Francisco Mele

Ho cercato di applicare nell’ambito familiare  i concetti di memoria e oblìo sviluppati in più scritti da Paul Ricoeur.

Quando in un viaggio che ho definito “spirituale” sono arrivato alla casa di Paul Ricoeur fuori Parigi, il grande filosofo mi ha accolto con cortesia affettuosa; lo avevo già conosciuto a Roma, in occasione di un Convegno universitario dove mi era stato presentato da Francesca Brezzi, sua discepola che nel suo corso di Filosofia morale gli aveva dato un posto di preminenza. Ricoeur venne ad accogliermi sulla soglia che dava su di un grande giardino; sorrideva nell’invitarmi ad entrare. “Questa casa era stata di Emanuel Mounier – disse con un tono di amarezza e di rimpianto –,  ed ora che lui non c’è più è diventata la mia; e la strada si chiama Henri Marrou, uno storico di fama, un altro grande amico, ormai anche lui non c’è più”.  Mounier aveva fondato e diretto la rivista di studi filosofi e cristiani “Esprit”, a cui Ricoeur stesso aveva più volte collaborato. Nel vecchio filosofo si avvertiva l’accettazione del trapasso, e l’importanza dei ricordo di coloro che con lui e nella stessa linea di pensiero avevano per decenni portato avanti in mezzo a contrasti e difficoltà l’idea della dignità della persona. Proprio agli inizi della pubblicazione di “Esprit”, Ricoeur era stato fatto prigioniero dai tedeschi e mandato in un campo di lavoro in Germania, com’era accaduto anche al filosofo Emmanuel Lévinas.  Quando andai a trovarlo, Ricoeur stava ultimando “La memoria, la storia, l’oblio”, in cui il tema del perdono, già da lui più volte sviluppato, costituisce un punto fondamentale del libro, in cui il legame fra memoria, storia e oblìo è implicito. Due domande oggi mi vengono alla mente, che vorrei fargli, e di cui non ho trovato risposta in nessuno dei suoi scritti: il racconto dettagliato della sua prigionìa, le ragioni della mancanza di odio nei confronti dei suoi carcerieri. E un’altra domanda, sulle ragioni per cui alla fine della sua vita si occupa del tema del ricordare, dell’oblìo e del perdono. Sarà stato questo un processo di sublimazione di un’esperienza dolorosa, che è stato possibile trasferire dal piano dell’esperienza personale a quello del racconto, ma visto e analizzato in terza persona? Perché tanti che sono stati prigionieri, durante la vecchiaia vengono tormentati da ricordi penosi e talvolta insopportabili, come nel caso di Primo Levi e di Bruno Bettelheim, che non hanno retto al peso del ricordo? Nei suoi testi Ricoeur non dimentica mai i suoi maestri di pensiero, riconosce il debito; allo stesso modo vorrei rendere il mio omaggio a Lui, che mi ha sostenuto da quando – sono ormai trent’anni – ho cominciato a studiare i suoi scritti, sempre interlocutori e guida. 

Paul Ricoeur distingue fra memoria individuale e memoria collettiva. Analizza le patologie che, partendo dagli studi di Freud, avvengono sulla memoria. Ricoeur prende due testi di Freud; “Ricordare, ripetere e rielaborare” e “Lutto e melanconia”. Freud incontra il principale ostacolo a interpretare i ricordi dei pazienti nel meccanismo di coazione a ripetere, che riguarda un’azione che impedisce il ricordo. Scrive Freud: “Il paziente riproduce quegli elementi (dimenticati) non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente, senza rendersene conto”. Ci sarebbe allora un forte legame fra coazione a ripetere e resistenza; il lavoro dell’analisi sarebbe quello di aiutare i pazienti a rimemorare invece di agire. In sintesi, ci sarebbe un lavoro della memoria. Questo fenomeno Freud lo scopre nella sua analisi della traslazione, perché è nella traslazione che il soggetto ripete un’azione inconsapevolmente invece di ricordare l’evento accaduto. In quel periodo – 1914 – Freud  sosteneva ancora il concetto di ricordo traumatico, che poi viene sostituito e ampliato quando elabora il concetto di realtà psichica, nel senso che si può ricordare qualcosa che non è avvenuto mai nella realtà, ma che è stato immaginato dal soggetto. Il ricordo di una scena che fa parte di una fantasia può avere un effetto sulla persona con una forza maggiore ad un fatto avvenuto nella realtà. Ma anche il sintomo di un paziente, come lo era la paralisi di un braccio di un’isterica, rappresenta un documento di qualcosa che è avvenuto nel passato e che è stato dimenticato dal paziente, ma che sopravvive attraverso, ripeto, il sintomo.

In “Lutto e melanconia” si verifica anche qui un lavoro psichico che Freud definisce “il lavoro del lutto”. Egli scrive: “Il lutto è invariabilmente la reazione alla perditadi una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la Patria ad esempio, o la libertà, o un ideale e così via”. In alcuni pazienti sorge la melanconia invece del lutto. Nel primo saggio, invece del ricordo c’era il passaggio all’atto; in questo, invece del lutto si trova la melanconia. Nel lutto non c’è disturbo di personalità, prevale l’esame di realtà, nel senso che l’oggetto amato non c’è più, e la libido si ritira dall’oggetto perduto. Nella melanconia invece il soggetto rimane attaccato all’oggetto, con molta difficoltà ad accettare la realtà della perdita; il mondo per il paziente rimane vuoto e impoverito, appaiono sentimenti di autoaccusa, predominano i sensi di colpa. Freud si domanda se questi rimproveri rivolti a se stesso non mascherino i rimproveri fatti all’oggetto d’amore.

Nel lavoro del lutto si produce un distacco fra presente e passato; la persona amata perduta appartiene al passato, il lavoro del lutto dovrebbe finire con la riconciliazione con l’oggetto perduto, quindi è possibile allora ricordare “la memoria felice”, colui che se ne è andato; l’esperienza vissuta con quella persona rimane staccata dal presente e quindi apre la tensione verso il futuro, nel senso che il soggetto riprende il suo rapporto con la realtà e con la vita. A proposito della vita, per Ricoeur l’essere-per-la-vita sostituisce il concetto heideggeriano l’essere-per-la-morte. Il processo di riconciliazione con il passato che a livello individuale e familiare riguarda la riconciliazione con i propri genitori, fratelli, e altre persone significative diventa un compito fondamentale per non rimanere invischiati in lotte che impediscono al soggetto di riprendere il rapporto con la realtà e di riprogettare la propria esistenza.

Un figlio che non ha risolto il conflitto con il proprio padre avrà seri problemi per poter gestire il ruolo di padre con i propri figli.

Nel caso di Margot, tratto da “Farsi male”[1] si individuano alcuni dei concetti sopra evidenziati. La ripetizione, che serve a non ricordare l’episodio traumatico, ma che non lo può cancellare, perché questo episodio torna attraverso il sintomo del vomito che è legato a una perdita, quella della sua amichetta, e l’altro, che è l’intervento negativo della madre che cerca di falsare la realtà. Un episodio mai chiarito nell’infanzia della protagonista ritorna quando la ragazza si trova in viaggio verso la casa dei genitori. In tutti i casi in cui la memoria viene falsata, essa si configura come un grumo di rappresentazioni, affetti, sentimenti, perfino odori, che si riattivano appena uno di essi viene stimolato da qualche situazione presente. Questo grumo che non è stato mai portato sul piano del linguaggio ritorna con la sua forza che, nel caso di Margot, nell’impossibilità di parlare,  lo espelle attraverso il vomito. Il lavoro della terapeuta è stato quello di aiutare la paziente a collegare il sintomo con un evento del passato. Dopodiché Margot riesce a ricordare i fatti e quindi a dare ad essi parola: dopo il racconto la ragazza si sentirà meglio.

La riunione di famiglia

“Siamo partite una mattina presto, in automobile. Da qui in comunità, verso la campagna. I genitori di Margot hanno una casa in collina a pochi chilometri dalla città; gente ricca che sta più all’estero che qui. Aveva telefonato la madre; felice che la figlia stesse meglio, chiedeva se potevano vederla, lei e il padre; erano appena arrivati da Parigi – dove trattano i loro affari – ; c’era anche il figlio, potevano vedere la ‘bambina’? Ho avuto un momento di perplessità; avrei voluto dire ‘no’, perchè Margot stava appena cominciando ad uscire dal suo abituale stato distruttivo, e le serviva tempo per sentirsi sicura e riprendere fiducia…”.

Maria si interrompe; d’impulso aggrappandosi alla propria fragilità prosegue la lettura degli appunti: 

“…e anche noi abbiamo bisogno di tempo per verificare se la nostra utopia può realizzarsi; non basta un’ora, un giorno, un risultato positivo!… Poi ho accettato. Mi faceva pena sentire quella donna ricca, bellissima, elegante, che sembrava avesse avuto tutto dalla vita, supplicare sotto il tono allegro, educatissimo, di vedere una figlia che da un momento all’altro può  ammazzarsi, e lei forse era stata una delle cause della sua disperazione, se non la più importante, la iniziale…  Andiamo dunque, a questa riunione di famiglia, con la scusa che sono arrivati tutti quanti per un lungo week-end…Da mesi Margot  non incontra più nessuno dei suoi; è stata una nostra richiesta per poterla controllare senza condizionamenti; parlando di piccole cose andiamo in mezzo ai boschi per quelle strade tutte curve in salita. Ma via via che ci avviciniano alla casa l’allegria di Margot diminuisce; sembra che più niente la interessi; diventa silenziosa, chiusa in se stessa; ansima, non riesce a respirare, è pallida, la fronte sudata; mi fermo in una radura,  la aiuto a scendere; si appoggia a un albero e vomita; la sostengo, poi la  adagio sull’erba. 

‘La macchina…’, 

si giustifica, tirando finalmente un lungo respiro. 

La assecondo, ma so che non patisce l’automobile; le faccio bere un po’ d’acqua. Dopo un po’ mi dice: ‘Sai a che penso? Alla festa per i miei sette anni…Ero così felice! Un sacco di regali…Tanti bambini venuti a festeggiarmi…Una merenda grandiosa…l’aveva preparata mia madre, tu la conosci…’. 

Io subito: 

‘Posso immaginare!’, 

e ridiamo tutte e due. Poi lei rimane zitta. 

‘Allora? Che cosa mi volevi dire?’. 

‘Non lo so. Mi sono ricordata quella festa. All’inizio era…una sensazione gradevole; poi…mi è venuto da vomitare’. 

‘A che cosa colleghi questo senso di vomito? Cerca di ricordare…’. 

Eravamo abituate a parlare così, tante volte in seduta; lei ricordava qualche cosa e io tentavo di farle collegare i ricordi, le sensazioni; in parecchie occasioni aveva funzionato. Si stropicciava la fronte, come a volerne far uscire i pensieri: 

‘Mah…non lo so…La festa andava avanti bene…Erano tutti allegri…Si facevano dei giochi…Però mancava la mia amica più cara. Claretta non era ancora arrivata…Ogni tanto mi veniva in mente…ed ero sempre più ansiosa; mi domandavo perchè non fosse già lì, con me. A un certo punto mi è venuta l’ansia; non riuscivo a respirare pensando alla mia amica…Allora ho chiesto a mia madre perchè Claretta non arrivava’. 

‘E che cosa ti ha detto?’. 

‘Che aveva dovuto partire. Improvvisamente’. 

‘Improvvisamente! Una bambina!?’ 

Mi pareva una risposta strana. E Margot: 

‘Mia madre ha detto che i suoi genitori si erano trasferiti in un’altra città. Io mi sono sentita tradita. Perchè non dirmi niente? Anche se avessimo abitato in due città diverse, avremmo potuto incontrarci lo stesso…La festa non mi importava più, non vedevo l’ora che finisse’. 

 Margot si era di nuovo interrotta. Il suo volto era arrossato come per febbre; riviveva una situazione già vissuta e soltanto allora scopriva l’influenza che aveva avuto su tutta la sua esistenza. 

‘Giorni dopo ho incontrato la madre di Claretta; aveva l’aria triste, sai come quando si è pianto tanto e non si riesce a piangere più? Mi guardava e non diceva niente. Io ero presa dal terrore. Poi mi ha abbracciata: ‘Non c’è più Claretta. E’ morta…’; a me è venuto da vomitare. Ho odiato mia madre da quel giorno. Non le ho mai detto che l’avevo saputo’. 

‘Potevi chiederle per quale motivo ti aveva nascosto la verità’.

‘Non ci sono riuscita; evitava l’argomento. Dopo qualche tentativo ho rinunciato’. 

Io ho cercato di dirle che forse la madre aveva pensato, in quel modo, di risparmiarle un dolore: 

‘Però non si è resa conto di averti privato della realtà’, 

ho aggiunto; e lei: 

‘Tante volte ha fatto così’. 

Non me ne aveva mai parlato, neanche in seduta; gliel’ho detto. Le era venuto fuori in quel momento; perchè? 

‘Perchè stiamo andando da mia madre?’, 

ha detto lei; rideva, per dare leggerezza a quella riflessione, che era la verità. E io allora:

‘Forse. Ora tante cose le hai capite. Resta il fatto che tu madre ti ha ferito. Volendo pensare al tuo bene, ti ha privato della realtà; poco per volta devi riprendertela, anche se a volte la realtà fa soffrire’. 

Per il resto del percorso Margot non ha parlato più; ma aveva ripreso colore sulle guance  e a un certo punto si è messa a fischiettare.”

Nel percorso che va dalla memoria individuale alla memoria collettiva che Paul Ricoeur realizza partendo dagli studi di Freud in “Ricordo, ripetizione, rielaborazione” e in “Lutto e melanconia” si verifica soprattutto il lavoro del lutto come uno scontro di forze psichiche che cercano di cancellare, manipolare, imporre un’altra versione, o di rimuovere un ricordo di un evento accaduto o immaginato dal soggetto. Secondo l’ipotesi dell’equivalenza, lo stesso meccanismo che corrisponde all’abuso della memoria si verifica a livello della memoria collettiva, analizzando la quale si può arrivare a quella individuale, riscontrandone per analogia gli stessi meccanismi.

Ogni storia personale deve essere letta, compresa e interpretata secondo tre dimensioni, il Sé, il prossimo e il lontano, secondo la terminologia di Paul Ricoeur. Non si può capire un gesto, un’azione, senza tener conto della complessità del mondo interiore, del mondo familiare e di quello istituzionale. Questa triade è intimamente collegata alla triade dell’etica della personalità in Ricoeur. La stima di sé, l’incontro con l’altro all’interno di situazioni giuste. In questa linea il concetto di memoria deve essere intesa non più come la memoria soltanto di un singolo, bensì un intreccio costruito con gli altri. Il logos è secondo me un tria-logos; in ogni logos individuale, quando un soggetto parla, ricorda, immagina, sono presenti l’altro e gli altri. Questi altri costituiscono l’umanità presente nel singolo; non esiste un individuo isolato, dal momento che pensa, patisce, agisce e parla, sono presenti gli altri logoi.

L’identità dipende dalla memoria; senza memoria un soggetto non saprebbe chi è quando dice “Io sono”. Ricoeur differenzia due tipi di identità, il medesimo come medesimezza, e l’ipse come ipseità. L’identità come medesimo riguarda un aspetto immodificabile del soggetto; alcuni lo definiscono “il carattere”; invece l’ipseità è l’aspetto narrativo che si modifica quindi ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé; ma questo mutevole contiene a sua volta un aspetto costante. 

A differenza del medesimo, in cui l’invariante è legato al passato, nella ipseità l’invariante guarda al futuro. L’invariante della ipseità è la promessa; la persona promette di mantenere la parola data; quindi un “vero uomo” è colui che mantiene la sua parola indipendentemente da quanto potrà accadergli, mettendolo in difficoltà circa la promessa formulata.

Secondo Ricoeur la memoria è fragile e soggetta a manipolazioni. Sia il soggetto a livello individuale, sia la comunità manipolano la memoria.

Uno dei tre principi fondamentali dell’etica secondo Agnes Heller è la responsabilità; dire “Io sono responsabile” o “Sono il responsabile” vuol dire che in tale affermazione confluisce la molteplicità del Sé. I politici e i dirigenti delle istituzioni non si assumono spesso le proprie responsabilità; è pressocché impossibile sentire che un politico, ad esempio, dica: “Mi sono sbagliato”, eppure, pur non ammettendo di essersi sbagliati, vogliono “cambiare tutto”. Essi tentano in ogni occasione di agguistare la situazione a proprio vantaggio, lo si evince anche dalle recenti rivelazioni evideenziate dalle numerose intercettazioni telefoniche nelle quali appaiono comportamenti meschini, legati ad interessi personali di bassa lega, anziché eventuali preoccupazioni relative al bene comune o all’espletamento delle proprie mansioni di responsabili di fronte alla comunità.

La manipolazione della memoria pone il problema morale, che non è – come dice Ricoeur – risposnadente alla domanda “Che cosa devo fare?”, bensì “Come vorrei condurre la mia vita?”. La manipolazione della memoria è molto vicina alla manipolazione dell’altro, come l’agire manipolativo di Habermas, molto lontano dall’agire comunicativo dello stesso Habermas. 

Perché si manipola la memoria?  Si tratta di evitare sensi di colpa per azioni commesse in passato, che la coscienza non sopporterebbe nella loro verità? Si manipola la memoria perché si ha paura di una punizione che viene dall’esterno?

Nell’ottica del tria-logos il rapporto con l’altro è sempre un rapporto triadico: Io (il Sé)-Altro-l’Umanità/o Altri. In un determinato rapporto, quando sono sollecito o violento con un altro, lo sono con tutta l’umanità. Il concetto di tria-logos implica l’etica dell’intersoggettività, il Sé, l’altro e l’umanità sono intimamente interconnessi.

In Lévinas – come in Lacan  – si pone il primato dell’Altro. In Ricoeur non c’è né il primato dell’Altro, né il primato del Sé come sosteneva la vecchia filosofia dell’Io.

La costruzione dell’identità appartiene quindi all’intreccio fra il Sé, l’Altro e l’Umanità: quest’ultima non è rappresentata da tutti quanti appartengono alla contemporaneità e che sono vicini al soggetto che sta costruendosi, ma è tutta la Storia costruita con tutte quelle manipolazioni, abusi, ma anche con tutto il patrimonio culturale presente definito da Ricoeur l’”archeologia del soggetto”, ma anche da tutta la storia che vive negli archivi, nei monumenti, nelle opere della letteratura, della musica e delle arti figurative. 

L’etica dell’intersoggettività pone la questione della simmetria e disimmetria dei rapporti umani; c’è il comandamento morale perché nell’uomo si manifesta la violenza. Alle figure del male – scrive Ricoeur – si risponde con il no della morale. Etica e morale, concetti sinonimi, in Ricoeur vengono differenziati: l’etica, definita come la ricerca del bene in Aristotile,  rappresenta l’approccio teleologico – ci sarebbe cioè una tendenza spontanea dell’uomo verso il bene – ; la morale costituisce l’approccio deontologica ispirato a Kant, che è la morale dell’obbligazione. Etica e morale devono essere vagliate dalla giustizia. Il tragico della situazione – direi di ogni situazione  in cui si deve fare una scelta – è che ci sia il rischio di scegliere di fare del male all’altro in quanto ognuno di noi viene spinto dal desiderio che tende al possesso, alla rivalità, e alla eliminazione – talvolta- dell’altro.

Il giudizio morale in situazione – nel senso che in ogni situazione devo scegliere un’azione o devo rispondere all’azione di un altro –, che viene definita come la phronesis ossia la saggezza pratica, significa che in ogni situazione devo mediare fra il principio universale e il particolare. Se sono rigidamente “purista” verso il principio universale, avrò tantissime difficoltà a vivere in società, perché il rischio è di diventare “fondamentalista”, incapace di mediare nei rapporti umani. Se si rinuncia al principio universale e si sceglie l’azione più conveniente al soggetto in quel momento, in realtà si rischia di seguire e di stare dietro agli eventi senza poter intervenire attivamente. 

Le tre figure dell’alterità – sempre secondo Ricoeur – sono il corpo proprio, l’altra persona e la voce della coscienza che risuona come un altro in me stesso. Questa triade impedisce al soggetto di pensarsi come autosufficiente, chiuso in se stesso, capace di farsi da sé. L’etica dell’intersoggettività comprende il riconoscimento reciproco dei soggetti che si trovano in una situazione vis à vis – uno di fronte all’altro – o in situazioni lontane come avviene all’interno delle istituzioni. I rapporti all’interno delle istituzioni sono regolati dalla giustizia che  impedisce la prevaricazione di uno sull’altro. Nel rapporto vis à vis prevale il concetto dell’amore o dell’amicizia; essa si può definire mutualità. Il concetto di giustizia pone altre questioni; infatti Ricoeur discute con John Rawls che sostiene il concetto di giustizia come equità – dare a ciascuno quello che proporzionalmente gli spetta -, separando i concetti di bene e di giusto; in realtà si possono conciliare questi due concetti, perché in sintesi la giustizia come equità in Rawls si riduce alle procedure. Se la giustizia è la virtù delle istituzioni, intesa come una logica matematica dell’equità, è molto molto difficile concepire la giustizia all’interno della famiglia, in cui dovrebbe predominare la logica della sovrabbondanza, perché non si può misurare qui quello che si dà e quello che si riceve. Calcolare quello un genitore ha dato al figlio o quello che i figli danno ai genitori non si può ridurre a calcoli matematici. La logica della sovrabbondanza, che, secondo Ricoeur, è alla base dell’amore cristiano, e si basa soprattutto sul perdonare il nemico, o chi ci ha offeso,  pone altri problemi. Fino a quando una madre deve perdonare il figlio  che distrugge il patrimonio familiare, o una moglie sopportare la violenza del marito, o il marito la trascuratezza della moglie e così via? Questa logica ci permette di comprendere come persone che hanno vissuto insieme per tanti anni, nel momento che il rapporto si incrina, si dimenticano di tutto il bene che c’è stato tra loro, come se  tutti gli anni vissuti insieme fossero stati annullati dagli ultimi comportamenti negativi. 

Il lavoro dell’oblio diventa quello di cancellare le tracce di tutto il tempo intrecciato con l’altro che non c’è più: buttare le fotografie, i regali, i minimi oggetti del ricordo; esso è anche costituito dalla sottrazione all’altro di qualsiasi bene, la casa, i mobili, gli oggetti: tutto quello che possa recargli danno viene fatto. Il lungo lavoro dell’oblio nel rapporto incrinato si scontra con la presenza dei figli, che si trovano in un conflitto perenne, se dimenticare il genitore che se ne è andato o mantenerne la memoria che l’altro genitore vivrà come un dispetto: chi si sente ferito dal torto dell’altro, ogni momento che il figlio lo nomina, soffre come se il passato tornasse con tutto il suo peso. 

Beatrice o La memoria ferita

A poco più di quarant’anni, sposata con due figli grandi, divorziata e risposata, Beatrice, che ha ricordi vaghi di un’infanzia dove suo padre è morto quando aveva due anni e sua madre quando ne aveva sette, viene a sapere che ci sono alcuni parenti da parte di suo padre, mentre questi non avendola potuta riconoscere perché era a sua volta sposato e non c’era ancora la legge che successivamente ha consentito di riconoscere i figli nati fuori dal matrimonio, alla sua morte era stato in sostanza cancellato dai fratelli della madre di Beatrice, per molti motivi portati a tenere la bambina con loro.

Quando riceve la telefonata della cugina che le dice chi è lei, e le rivela qualche particolare relativo al padre, tanto da non farle dubitare della verità di quanto la donna viene dicendole, Beatrice si sente sconvolta dalla notizia. E’ abituata da sempre a sentirsi sola, senza radici, timorosa di quanto può accaderle senza avere alcuna protezione, già provata da quel preteso affetto dei fratelli della madre, che alla morte di questa l’hanno privata di ogni suo bene, andando contro i suoi stessi diritti; ha cominciato a lavorare giovanissima, e giovanissima si è sposata, per allontanarsi da casa – è lei stessa a dirlo, con lucida consapevolezza – , naturalmente sbagliando per l’affrettatezza, tanto da dividersi pochi anni dopo; ma ormai il passo del distacco era stato fatto, e lei aveva cominciato a guadagnarsi da vivere, cominciando dai gradini più bassi, di piccoli turni din sostituzione di altri in quei villaggi-vacanza o campings che abbondano sulle falde del lago. Tenacemente ha salito i gradini di questo lavoro, fino a diventare la direttrice del campeggio, insieme allevando i due figli, mentre il padre se n’era andato a cercar fortuna in America, e lei non aveva ancora conosciuto quello che sarebbe poi diventato il suo secondo marito, molto più anziano di lei, forse una figura paterna come desiderava avere accanto, in sostituzione del padre che in pratica non aveva mai conosciuto.

I fratelli della madre, alla morte di questa, hanno distrutto ogni traccia del suo breve passato; hanno gettato via le fotografie che la ritraevano con quel padre che non aveva potuto darle neanche il cognome, e con una madre sorridente e tenera, trionfante di mostrarla al compagno, senza mostrare timori per la sua posizione fuori dagli schemi familiari, a quell’epoca molto rispettati, specie in luoghi di stretta osservanza cattolica come l’Alto Adige, dove si è svolta l’infanzia di Beatrice. 

Le foto che conserva gelosamente, chiuse in una busta, non collocate su pagine di album, tutte per lei come a temere che le vengano anche queste sottratte, le sono state date da un’amica della madre, che sia pure di lontano ha seguito le sorti di questa famiglia infelice: lei vi appare talvolta con uno sguardo trafitto da una sorta di inconscia paura, come se già intuisse un futuro tragico e solitario.

In più occasioni Beatrice è stata segnata da un destino crudele. Il mancato riconoscimento del padre ha avuto come seguito la sua morte prematura, che non ha consentito né riconoscimenti né sostegni di tipo economico. La morte della madre, che l’aveva allevata con qualche agiatezza lavorando nell’albergo di famiglia, la priva non soltanto del suo affetto, ma anche di quel sostegno, in quanto i fratelli della donna, pur volendola con loro in apparenza per allevarla nella loro famiglia, la spogliano di ogni suo avere, attraverso manovre illecite, documenti falsi e quant’altro. 

A questo stato di abbandono pare affacciarsi, poco dopo, una speranza. Una sorella del padre, donna facoltosa sposata ad un ricco industriale, convince il marito di prendere con loro la bambina; non avendo figli, pensa la donna, potranno addirittura adottarla. Ma l’egoismo abitudinario del ricco signore costringe la moglie a rimandare la bambina poche settimane dopo averla tenuta con loro, in una vancanza-prova al mare. 

E’ un ulteriore abbandono, meno traumatico del primo, ma più sofferto nella consapevolezza di una raggiunta età della ragione. Quando ha appena tredici anni Beatrice scappa di casa; vaga nei boschi per due giorni, quando alla fine la trovano e la riportano a casa dagli zii, la minaccia che le fanno è quella di chiuderla in un collegio; ma lei provocatoriamente risponde che tutto preferisce pur di non restare lì; e quelli invece la tengono in casa, certo non volendo spendere per lei una retta di collegio e non volendo destare sospetti circa un loro maltrattamento, perché vogliono mettere le mani sulla casa a lei intestata dai genitori prima di morire.

Di altri parenti – zii e cugini – Beatrice sa poco o nulla. In un fugace soggiorno nella città di suo padre è stata portata dalla zia a casa di uno dei suoi fratelli, dove i figli di questo e la moglie accolgono la bambina con effusioni e gioiose profferte di affetto; ma la decisione del ricco zio aggiunto cancella ogni possibile sviluppo di questi incontri familiari, e i ricordi di Beatrice svaniscono via via in un rimpianto confuso. 

E’ quindi un trauma quando riceve la telefonata della cugina. Questa ritiene che debba essere affrontato l’argomento della parentela a pieno campo, dal momento che ogni incertezza non farebbe che complicare la situazione, già di per sé incancrenita dai decenni passati nell’oscurità.

Viene così fuori, subito, la notizia che Beatrice ha una sorella, dal momento che suo padre era sposato e aveva una figlia, nata qualche anno prima di lei, quando ancora lui stava con la moglie legittima: un errore, quel matrimonio affrettato, deciso per ripicca nei confronti di una fidanzata traditrice; così il giovane per una vendetta ha iniziato una trafila di errori che in definitiva sarà Beatrice soprattutto a subire.

Nonostante il timore che la invade a quell’aprirsi improvviso di un’oscurità che pensava definitiva, Beatrice accetta il rischio di nuove delusioni.

La cugina la informa sulla parentela, le descrive  gli zii e i cugini, le promette qualche foto del padre, che nella sua infanzia e adolescenza ha visto più volte. La persona che sta più a cuore a Beatrice è la sorella: perchè non si è mai fatta viva con lei, dal momento che, come le dice la cugina, è stata questa sorella a fornirle quel cognome, abbastanza raro, e il nome del paese dove cercare senza poi troppe difficoltà di rintracciarla, anche se a distanza di qualche decennio? La cugina sa che questa sorella maggiore è una persona insicura, forse a sua volta toccata dall’abbandono del padre quando era ancora bambina, forse resa timorosa dalla madre abbandonata, che può aver parlato in termini di ira di quella nuova famiglia del marito; avverte blandamente Beatrice di non fare troppo affidamento sulla sorella, che da lei avvertita circa il suo ritrovo amento la cercherà – lei crede – al più presto. 

Ma la sorella non si fa sentire. Più volte si sentono e si scrivono cugina e Beatrice, ma la sorella non si profila; lo farà dopo più di sei mesi, annunciando in termini opachi che andrà a trovarla: l’altra le spiega che strada fare con la macchina, e fissano un’ora per l’incontro. Ma il giorno viene e anche l’ora, e poi passa e si fa tardi, ma la sorella non arriva. E Beatrice telefona alla cugina, che sentita la situazione, la rassicura: è il modo di comportarsi della sorella, che oltre a tutto, a quanto a lei risulta, no guida la macchina e quindi anche quel dettaglio dimostra la vacuità di questa sorella. Che si rifarà sentire mesi dopo, e andrà a trovare Beatrice di sfuggita, in occasione di una visita premio del suo CRAL ad una mostra di vini.

Nonostante la mancanza di basi affettive, parentali, culturali, Beatrice è riuscita a raggiungere una posizione economica e sociale di buon livello; ha allevato due figli, dando loro un’istruzione universitaria, e ha mantenuto un discreto rapporto , per via dei figli, con il primo marito, nonostante le aberrazioni di cui questi è stato capace fino al momento in cui lei ha detto basta e ha deciso di separarsene.

Ha modi gentili, un tono di voce mai arrogante, una capacità di lavoro infaticabile, la gente la tratta con rispetto affettuoso, direi protettivo, anche se la sua figura è piuttosto imponente, ma la sua voce è quasi infantile, e le sue forme tondeggianti la avvicinano alla sagoma di una grande infante.

Quello che è riuscita a conseguire, Beatrice lo ha ottenuto da sola. Dice che spesso pensa a quei genitori che le sono sfuggiti troppo presto anche per essere amati e rimpianti.

Le piace l’idea di avere dei cugini; ascolta sorridendo le piccole storie che la cugina le racconta della giovinezza dei nonni, dell’infanzia degli zii, le manie delle zie nubili, l’atmosfera di allegria della casa piena di bambini e di animali in cui è vissuto anche suo padre. Sorride fra tristezza, mestizia e dolcezza. Anche lei ha dato qualcosa di simile ai sui figli, ma da sola, con accanto, negli ultimi anni, quella figura paterna che ha sposato amandola ma come? Mostra con orgoglio le fotografie in cui appare il figlio maggiore nel giorno della laurea: lei gli è accanto, vestita da signora, truccata e pettinata come una madre borghese placide e sicura, ma negli occhi le si intravvede il pianto, e la bocca dischiusa al sorriso ha una piega dura, di volontà ostinata e vittoriosa.

La prima domanda che il racconto ci pone è: come è riuscita Beatrice a superare tante situazioni di rifiuto? Quali sono state le sue risorse per superare i lutti di tutti e due i genitori in tenera età? Ha potuto perdonare gli zii che l’hanno spogliata dei suoi beni? E ha potuto perdonare lo zio ricco che l’ha illusa di una famiglia in cui essere considerata una figlia, proprio nell’ambito della parentela del padre che non ha  avuto la possibilità di riconoscerla?  E soprattutto, ha potuto perdonarsi, in quanto spesso i bambini si attribuiscono delle colpe per giustificare la mancanza di amore da parte degli adulti, o forse dovuto al meccanismo del rapporto violento fra carnefice e vittima in cui il carnefice fa sentire la vittima colpevole, e quindi degna di meritare la pena inflitta? 

Avrebbe potuto avere un futuro luminoso, addirittura diventare una ricca ereditiera, ma la decisione di rifiutarla da parte dello zio ricco l’ha gettata in quella famiglia di fratelli della madre. Alla domanda circa quale è stato l’elemento di forza che le ha permesso di non soccombere a meccanismi autodistruttivi, Beatrice risponde: “L’immagine di mia madre, che mi ha sempre accompagnata, e la fede”.

La madre è presente anche nella sua professione; dai nonni e dalla madre ha ereditato la capacità di gestire luoghi di accoglienza – la famiglia materna teneva da generazioni un albergo -.

Il tessuto del racconto gira intorno al tema della memoria ferita, manipolata e cancellata.

Il rapporto stretto fra memoria e identità pone la questione della costruzione del Sé di Beatrice.

I buchi nella storia vengono riempiti dalle storie fugaci dei visitatori del Villaggio; incontri e scambi legati alla vacanza altrui ripetono il gioco dell’apparire e della perdita; gli oggetti e le persone diventano una realtà liquida, precaria ed incerta. 

Cosa permane in questo movimento di apparizioni e scomparse? Paul Ricoeur differenzia l’identità idem dall’identità ipse. La prima riguarda quell’elemento  fisso, durevole, quell’aspetto che rimane senza modificarsi nella storia del soggetto. La seconda corrisponde al racconto che integra e dà senso alla storia che muta attraverso il tempo e le circostanze. Quest’ultimo aspetto dell’identità corrisponde al rapporto del soggetto con il futuro e si manifesta chiaramente nella promessa della parola data: pur sapendo che le circostanze potranno cambiare rispetto alla previsione, l’individuo dà la sua parola e la mantiene. In questa storia si verificano promesse non mantenute. Avendo avuto nella propria vita esperienza di promesse non mantenute, Beatrice non risponde alla violenza subìta con la violenza; cerca in tutti i modi di trasformare il rapporto di abbandoni e di rifiuti, rompe con questa catena di abbandoni e riesce a dare affetto e a prendersi cura dei suoi figli. 

La notizia arrivata da parte della cugina rimette in discussione il proprio racconto di sé; deve fare tutto un lavoro di ricostruzione, aggiungere tasselli e ampliare il suo essere nel mondo. 

Arriva inaspettatamente l’eredità paterna, non dal punto di vista economico, dalla quale era stata negata, ma dal punto di vista del patrimonio di relazione familiare. In poco tempo scopre di avere tre cugini e una sorella. 

Ma l’elemento fondamentale è il racconto che riguarda la famiglia del padre, che è popolata di storie di viaggi nelle Americhe, che lei ignorava totalmente; questa notizia la sorprende, in quanto lei è attratta dai paesi del Centro e Sud America, e rimane sconcertata quando la cugina le racconta aneddoti in cui nella casa del padre da piccolo ci sono scimmie e pappagalli. 

Questo ampliamento della coscienza permette di integrare e di collegare aspetti del presente con il passato e di dare un filo di continuità che attraversa i tre momenti del tempo, e quindi ilo futuro si apre con altre possibilità.

Beniamino omicida infantile o La rimozione in famiglia

Cinquantacinquenne, pensionato della Guardia di Finanza, sposato e padre di due figli maschi, uno dei quali da poco tossicodipendente, Beniamino fino all’età della pensione – cinquant’anni per via del tipo di lavoro svolto – ha avuto un’esistenza apparentemente normale, ma allo scadere di quella data è entrato in una forte depressione, non capita dalla moglie che lo interrogava circa i motivi di quell’improvvisa caduta di interesse ad ogni cosa, per quei cupi silenzi dove il suo sguardo pareva scavare nel vuoto, alla ricerca di qualcosa che forse soltanto lui sapeva e che aveva, fino a quel momento, rimosso. Nello stesso periodo il figlio minore comincia a presentare un comportamento antisociale, schiva gli amici di un tempo, non parla con i suoi quando li vede nei pochi momenti del pranzo e della cena, esce senza dire dove va e spesso rimane fuori la notte; torna a volte con dei segni di percosse, intontito e lacero. Il fratello maggiore invece studia all’università nella facoltà di Economia e sostiene i primi esami con ottimi risultati; ha anche una ragazza, e questo insieme di elementi positivi nell’esistenza del fratello maggiore determina anch’esso l’entrata del minore nella tossicodipendenza. Rivalità, invidia, incomprensioni fin dall’infanzia hanno creato a poco a poco un solco fra di loro; ad un certo momento i due si sono picchiati, e i genitori hanno mandato via da casa il minore, temendo che succedesse qualche cosa di irreparabile, soprattutto a causa della tossicodipendenza di questo, che poteva arrivare ad atti estremi per una mancanza di controllo determinata dalla droga. In realtà il timore dei genitori era legata alla situazione precedente, che riguardava il padre nella sua infanzia. 

Quando era caduto in depressione, qualche anno prima della cacciata del figlio da casa, il padre era andato in terapia; dopo alcune sedute era riuscito a collegare la sua depressione con un fatto accadutogli quando aveva sei anni, praticamente rimosso fino ad allora: giocando con la pistola d’ordinanza del padre che faceva la Guardia Giurata, Beniamino aveva ammazzato il fratello di otto anni. Di questa triste vicenda in casa non si era più parlato; la famiglia si era trasferita in un altro paese, per evitare che al bambino qualcuno rammentasse la triste vicenda, della quale non era stato colpevolizzato, mentre il padre aveva avuto dei problemi, che però Beniamino non sapeva come fossero poi stato risolti, dal momento che nessuno gliene aveva mai parlato e quando i suoi genitori erano morti, la storia si era chiusa con loro. L’uomo aveva parlato con la moglie di quel fatto, riemerso dopo tanti decenni alla sua memoria come una folgorazione; entrambi avevano deciso di non dirne niente ai figli. 

La lite violenta fra i figli accade alcuni anni dopo il periodo della depressione del padre e della sua scoperta dell’evento luttuoso nell’infanzia. Come conseguenza della dispersione della famiglia determinata da quella lite – il tossico per strada, l’altro taciturno e aggressivo – determina nella madre uno stato di depressione molto grave, al punto da ricorrer e ad uno psichiatra. E’ lui a consigliare alla coppia di iniziare una terapia familiare. Il fatto di aver diviso i figli per timore che si uccidessero – paura eccessiva e inspiegabile, che al ragazzo mandato è parsa abnorme e ingiustificata specie nei suoi confronti, di minore e più debole – alla luce della terapia familiare  a cui insieme al padre hanno preso parte la madre e il figlio maggiore, mentre il più piccolo, che si era messo a vivere per strada si era sempre rifiutato di partecipare alle sedute, è venuto emergendo il nesso che sotterraneamente si era venuto creando fra l’antica tragedia e la situazione attuale, dove di nuovo due fratelli si trovavano  l’uno di fronte all’altro, e si andava realizzando una minaccia di morte. 

Il motivo apparente che ha condotto i membri della famiglia di iniziare una terapia familiare – cioè la forte depressione della madre – in realtà non è il problema principale, che viene ad evidenziarsi mano a mano che si effettuano le sedute: è il padre ad essere la persona più fragile, più vulnerabile, e quindi a rischio.

La presa di coscienza del collegamento della depressione a causa del delitto infantile con la paura che i loro ragazzi si uccidessero ha consentito ai genitori di assumere dei comportamenti più tranquilli, rilevando l’esagerazione della precedente decisione di separar i due figli mettendone addirittura uno fuori di casa; ridimensionando la situazione, essi hanno fatto rientrare a casa  il tossico, senza imporgli la frequentazione di un programma di recupero, come in maniera troppo intimidatoria avevano fatto in precedenza, il rapporto con il maggiore si è andato riallacciando attraverso qualche incontro a cena, in un clima disteso, nel  quale anche il padre ha cominciato a ripresentarsi con le caratteristiche positive di una paternità seria ma indulgente, mentre la madre ha sfruttato le sue qualità di donna di casa preparando quelle cene in maniera che diventassero dei momenti di riunione e di allegria.

Questa situazione, emersa poi in tutta la sua complessità nel corso delle sedute di terapia familiare, deve essere visualizzata come una concatenazione di eventi, il primo dei quali affonda le radici in un passato oscuro e inquietante nella storia del padre, prosegue nella apprensività genitoriale rispetto al rapporto conflittuale dei figli come possibile suscitatore di morte, si attesta nella tossicodipendenza del minore, da considerare come un suicidio differito, ma anche come un omicidio graduale nei confronti dei parenti, prosegue e si sviluppa dalla depressione paterna a quella materna, motivata con l’indifferenza nei suoi confronti da parte del marito, dando in realtà all’indifferenza del marito una causa che invece era altra, e cioè la preoccupazione dell’uomo per dover risolvere uno stato di fatto personale, del quale non aveva mai potuto parlare apertamente e discuterne per poterlo superare. In sostanza l’uomo non aveva potuto portare il suo vissuto sul piano del linguaggio.

A livello di nucleo familiare è intervenuta una serie di meccanismi, che hanno scisso il piano dell’azione dal piano del linguaggio: la rappresentazione-ricordo è stata scollegata dalle emozioni; essa non è rimasta storicamente separata dal presente, per cui la distensione che avrebbe dovuto costituirsi, collocando l’evento nel passato, tale evento continua ad essere presente e quindi a condizionare il comportamento di ciascuno dei membri della famiglia, inconsapevoli dell’effetto della pressione determinata sul padre.

Questa terapia non è concluso e pone nuovi quesiti, come ad esempio se rivelare ai figli quanto accaduto al padre, o se esso debba rimanere come un segreto fra i genitori.

Nella terminologia di René Girard intervengono anche fattori di rivalità mimetica. La lite tra fratelli è anche legata a questa forma di rivalità.

 Barbara o La rivalità mimetica

E’ una signora consulente al Comune: quarantotto anni, sposata, con due figli; il marito, Fortunato,  ingegnere di prestigio, ne ha cinquantadue. Viene in comunità per il figlio Luca di sedici anni, con problemi di droghe leggere; la figlia, Elisabetta di diciotto, presenta disturbi dell’alimentazione nella forma anoressica.

Barbara è preoccupata per il figlio che non vuole saperne di frequentare un programma terapeutico, decisione che viene appoggiata da Fortunato, che a sua volta dice di sentirsi prigioniero della famiglia, mentre i figli sono molto arrabbiati con il padre che li ha lasciati a se stessi, peggiorando il comportamento a scuola da parte di Luca, e portando Elisabetta ad un ennesimo sciopero della fame.  Ma il problema principale che Emerge dai discorsi della donna è che la sua vita di coppia rischia di incrinarsi, in quanto Fortunato, proprio poco tempo prima, nel periodo natalizio, le ha rivelato di avere un’altra relazione e ha intenzione di andarsene di casa perché, come le ha detto con enfasi, “ha intenzione di vivere la sua vita e di essere felice”.

E Barbara mi racconta quello che ha saputo: dopo più di venticinque anni, suo marito ha incontrato Lucia, una sua “fiamma” del periodo in cui studiava all’università,  che al liceo era anche stata compagna  di Barbara; Fortunato era innamorato di Lucia, ma non glielo aveva mai rivelato perché si sentiva inadeguato in quanto “non era bello”; invece Lucia, pur non conoscendo i sentimenti dell’uomo, se ne era innamorata; in quel periodo anche Barbara si era innamorata di Fortunato: “Io sono stata più coraggiosa e mi sono fatta avanti – prosegue a raccontare -;  ci siamo messi insieme; dopo la sua laurea ci siamo sposati e io mi sono goduta la vittoria su Lucia”. 

Barbara  ricordava questa storia, ma pensava che fosse finita all’epoca degli studi; non immaginava che la sua compagna rivale dell’adolescenza – secondo il suo linguaggio – “tornasse di nuovo in gara”; alla dichiarazione di Fortunato si sente beffata dalla sorte e, passando al contrattacco,  accusa il marito di essere sempre stato arrogante con lei e di farle sentire di credersi superiore. Questo atteggiamento, in realtà davvero tenuto dal padre, ha creato insicurezza nei figli, che vivono nel terrore di essere giudicati dall’uomo; egli infatti non ha nessun ritegno nel sostenere che entrambi i ragazzi sono degli incapaci, e che soprattutto Luca sia un “coglione” perché non è stato capace di reagire alle difficoltà della vita: “Non ha preso da me, io mi sono fatto da solo – grida alla moglie in continua polemica -; eppure io vengo da una famiglia poverissima”. Questi figli, secondo la sua animosa e superba valutazione,  sono “molli” e non meritano nessun rispetto. Bisogna però riconoscere che,  proprio per contrastare il marito, la donna ha messo di mezzo i figli sobillandoli contro il padre, a cui, da quando se ne è andato di casa, ha scritto innumerevoli lettere, senza riceverne alcuna risposta. Le poche volte in cui Barbara riesce a incontrarlo, Fortunato continua a ripeterle che adesso si sente finalmente libero da lei, che nei suoi confronti ha fatto sempre la parte del “comandante”.  Ma la storia si rivela presto assai diversa da come l’uomo la sognava: Fortunato crede di scappare dalla moglie “comandante” per ritornare all’amore dell’adolescenza, tutto dolcezza e tenerezze, mentre adesso Lucia ha maturato la sua personalità, si è impegnata in un difficile lavoro istituzionale ed è arrivata  a dirigere un sistema carcerario: anche lei quindi mostra un carattere decisionista, non disposto a cedere o a mediare anche nelle situazioni sentimentali. 

Barbara ha riversato nel suo diario tutta l’angoscia di perdere il marito; in quelle pagine comunque se la prende soprattutto con la “comandante” che – secondo il suo giudizio carico di gelosia – vuole “rubarle” Fortunato.  In tutto il lungo scritto non fa altro che parlare della rivale; la sua autostima è venuta meno, mentre prima si sentiva forte e  in grado di portare avanti il suo lavoro con determinazione ed efficienza. tutte quelle pagine scritte con impeto ed animosità in sostanza si risolvono in lettere rivolte alla rivale; dopo mesi di questi continui invii, Lucia, la donna “comandante”, le spedisce una e-mail in cui dichiara trionfalmente che ha rotto con Fortunato e che glielo “rinvia a domicilio”. Dopo la decisione dell’amata Lucia, Fortunato si trova a un bivio: potrebbe andare a vivere da solo, avendone anche i mezzi, oppure potrebbe ritornare dalla moglie, ma si vergogna di ripresentarsi a casa, anche se Barbara sicuramente lo accoglierebbe subito senza rimproveri;  dal momento che è riuscita per una seconda volta a strappare a Lucia l’uomo che entrambe hanno adorato – mi dirà Barbara -, la donna si riprende il marito. Dopo mesi dal rientro a casa di Fortunato, Barbara non prova odio per il marito, ma neanche amore. Scomparse la lite e la contesa con Lucia, ormai è svanito anche il suo interesse per Fortunato; come per una magia il dolore ha fatto posto all’indifferenza. “Non si tratta di punirlo per quello che ha fatto” – conclude Barbara -, ma, non so perché, ormai lui non mi dice proprio niente”. In realtà è scomparsa la rivalità che al tempo del liceo le due donne avevano provato innamorandosi dello stesso ragazzo.

La prima domanda che mi pongo è: di chi si innamora una persona, in precedenza innamorata di un’altra, dopo trent’anni da questa circostanza rimasta ferma a quel tempo? Sto facendo riferimento a Fortunato che ritrova la Lucia dei suoi anni giovanili. Dal momento che le persone dopo tanti anni sono cambiate radicalmente, chi vedono come soggetto del loro innamoramento? E loro stesse, come sono viste rispetto all’oggetto del loro amore?  Lo stesso interrogativo viene a porsi anche da parte di Barbara, la donna tradita, che si trova dinanzi un uomo che non mostra più le caratteristiche dell’innamorato di allora. Dal punto di vista morale, Fortunato, pur di pensare a se stesso, cancella i suoi vincoli familiari, dimenticando il dolore che può causare il suo comportamento nei propri cari. Nella terminologia di René Girard, il concetto di rivalità mimetica permette di mettere in evidenza comportamenti che circolano in un breve spazio psichico; il gioco, alla fine, avviene, come sempre accade, fra tre elementi – Fortunato-l’oggetto conteso, Lucia-modello di Barbara e Barbara-modello di Lucia -; caduto agli occhi di Lucia l’oggetto conteso-Fortunato, in apparenza si sospende la lotta fra le due donne, ma l’uomo viene a cadere anche agli occhi di Barbara, sua moglie, per la quale il marito  ha perso quei caratteri di fascino che quando era conteso,  aveva per lei. 

In questa storia, chi viene sollecitato è il desiderio umano. Forse dopo tanti anni di matrimonio, con i figli che cercano un loro svincolo dalla famiglia, senza riuscirci, sono i ragazzi a mantenere in piedi una sorta di coppia nella quale il desiderio era pressoché svanito.  E’ per questo che vi si è potuta inserire la rivale, mettendo di nuovo in gioco un desiderio spento. L’idea di Barbara, di vedere la famiglia distrutta  dall’intrusione di Lucia è in realtà illusoria, nel senso che la famiglia era già divenuta inesistente in precedenza.

da Morte di un commesso viaggiatore

di Arthur Miller 

Biff o La caduta del mito del padre

         Atto primo, la didascalia iniziale

Si sente una melodia, suonata da un flauto. È lieve e bella, parla di erba e alberi e orizzonti. Si leva il sipario.

Davanti a noi è la casa del commesso viaggiatore. Dietro, s’intravedono forme torreggianti, angolose, che la circondano da ogni parte. Solo la luce azzurra del cielo cade sulla casa e sul proscenio; lo spazio intorno brilla di torvi riflessi arancione. Man mano che si fa luce, vediamo una solida volta di grattacieli circondare la piccola fragile casa. Un’atmosfcra di sogno aleggia attorno ad essa, un sogno che nasce dalla realtà. La cucina, al centro, sembra abbastanza reale, contiene un tavolo da cucina, tre sedie e un frigorifero. Altri oggetti, niente. Dietro la cucina c’è una porta con una tenda, che conduce alla stanza di soggiorno. Alla destra della cucina, su un praticabile alto mezzo metro, una camera da letto ammobiliata soltanto con un letto di ottone e una sedia. Su una mensola sul letto sta una coppa vinta in una gara sportiva. Una finestra si apre sul grattacielo di fianco. Dietro la cucina, su un praticabile alto due me­tri e mezzo, è la stanza dei ragazzi ancora in penombra. Si distinguono appena due letti, e in fondo alla stanza una finestra a abbaino. (Questa camera da letto è sopra la camera di soggiorno, che non si vede). A sinistra vi monta una scala dalla cucina. La scena è in ogni sua parte, o quasi, trasparente. La linea del tetto della casa è a una dimensione. Sopra e sotto di essa si vedono gli edifici circostanti. Il proscenio davanti alla casa fa da cortile come anche da luogo deputato per tutte le fanta­sticherie e le scene cittadine di Willy. Quando l’azione si svolge nel presente gli attori osservano il tracciato delle mura immaginario, ed entrano in casa soltanto attraverso la porta a sinistra. Ma nelle scene del passato questi confini vengono abbandonati, e i personaggi entrano o escono da una stanza attraversando il muro per venire in ribalta.

Dalla destra, Willy Loman, il commesso viaggiatore, entra con due grosse valige di campioni. Il flauto suona. Egli lo sente ma senza avvedersene. Ha più di sessant’anni; è vestito modestamente. Al solo vederlo attraversare la scena diretto verso la porta di casa, appare evidente la sua stanchezza. Apre la porta con la chiave, entra in cucina, e con sol­lievo lascia cadere le valige; gli fanno male le palme delle mani. Si lascia sfuggire un’csclamazione— – un sospiro, potrebbe esscre :  “Ohi mamma, ohi mamma”. Chiude la porta, poi trascina le valige nella stanza di soggiorno, attraverso la tenda in fondo alla cucina.

Linda, sua moglie, nel letto, a destra, si riscuote. Scende, e indossa una vestaglia, tendendo l’orecchio. E’ spesso gioviale, e abituata da lungo tempo a reprimere le sue obiezioni sul comportamento di Willy. Più che amarlo, lo ammira, come se la natura effervescente di lui, i suoi sfoghi, i suoi sogni grandiosi, le sue piccole crudeltà, servissero solo a ricordarle con crudezza i turbolenti desideri nascosti in lui, desideri che lei condivide, ma senza lo slancio necessario a manifestarli e a condurli a fondo.

Biff ha due anni più di Happy, è ben piantato, ma in questi giorni ha l’aria stracca e non tanto sicura di sé. Ha fatto meno carriera di Happy, e i suoi sogni sono più forti e meno ovii di quelli di Happy. Happy è alto e molto robusto. L’aria del donnaiolo è visibile su di lui, come un colore o un odore che molte donne hanno fiutato.  E’ un fallito come Biff, ma in un modo diverso, perché non si è mai rassegnato a riconoscere la propria disfatta, ed è quindi più confuso e ostinato, benché apparentemente più soddisfatto. 

Willy Loman è un piccolo rappresentante di abbigliamento femminile; è sposato con una brava donna che lo adora e lo sostiene con la sua ammirazione, e ha due figli maschi ormai adulti che negli anni dell’adolescenza lo hanno considerato un mito, credendo ai suoi racconti carichi di vanteria fantasiosa, a cui ad un certo punto non hanno più creduto. 

La struttura fantastica del padre comincia a mostrare le sue crepe; soltanto la moglie continua a circondare di ammirazione sconfinata il marito, che riesce a dare luce al suo mondo di casalinga frustrata, facendola partecipare ai suoi grandiosi progetti, alle sue avventure e ai suoi successi negli affari, come lui tornando racconta. Happy, il figlio minore lavora come caporeparto vendite; suo fratello Biff viene considerato dal fratello un fallito perché sogna come il padre, è un poeta, non ha mestiere, e pur cercando di indurre Happy ad affrontare con lui progetti grandiosi ma privi di base, non riesce in niente. Quando Biff va a trovare il padre in una cittadina dove questi sta lavorando esibendo i suoi prodotti, nella stanza di albergo scopre una donna con cui Willy sta per avere un incontro erotico, ma all’arrivo del figlio tenta di mascherare la situazione con il pretesto che la donna è una cliente. Da quell’episodio Biff comincia a covare contro il padre un rancore che si accresce ancora di più quando, andato a cercare lavoro da un tale che dovrebbe prenderlo in considerazione perché amico del padre, scopre che questi non è considerato per niente. Avviene poi che Willy  viene licenziato senza apparenti motivi e senza risarcimenti; rimane così privo di lavoro, dopo anni di impegno che si era illuso lo avrebbero gratificato; non sopportando questa ulteriore sconfitta, aggiunta alla perdita di considerazione dei figli, si suicida andando alla deriva sulla sua automobile; soltanto la moglie lo rimpiange, vagheggiando ancora i suoi sogni, e si chiede il perché di quel gesto che ha posto fine alla loro storia. 

Nell’opera teatrale “Morte di un commesso viaggiatore”, Arthur Miller presenta l’interrelazione fra l’invenzione fantastica che permette a Willy Loman di sopravvivere alla realtà, squallida e routinière, e la sua famiglia. Il mondo del lavoro, anonimo, senza prospettive, e rigidamente legato ad interessi economici che non tengono per niente conto delle istanze e delle aspirazioni individuali, badando soltanto al tornaconto, viene messo in evidenza dall’autore attraverso il microcosmo di un personaggio perdente.

Il suicidio di Willy Loman pone in particolare risalto il concetto di riconoscimento e la sua importanza per la stima di sé; il riconoscimento avviene all’interno di un ordine del riconoscimento; ci troviamo nella dimensione simbolica, perché non si tratta di un riconoscimento economico – aumento di soldi o promozione – o il riconoscimento che può avvenire da parte di chiunque; tale riconoscimento deve avvenire all’interno di un universo simbolico, attraverso persone o oggetti a cui l’individuo ha attribuito un valore particolare.

Il riconoscimento deve avvenire in un rapporto trialogico: qualcuno mi deve riconoscere alla presenza di un altro o di altri. Per tale motivo la considerazione che manifesta Linda, la moglie, non ha un effetto particolarmente significativo, da bloccare il dolore e l’umiliazione provati da Willy a causa della caduta della considerazione da parte dei figli e della perdita del lavoro. La perdita di questo lavoro soprattutto determina la sua caduta definitiva, in quanto era questo il motivo attraverso cui stabiliva relazioni e immaginava successi, e da esso dipendeva anche la considerazione dei figli, fino a quando la sua immaginazione lo aveva fatto credere vero. Ed era sempre a quel lavoro di commesso viaggiatore che gli permetteva voli immaginari e ipotesi sempre nuove di miraggi, che Willy  era  rimasto attaccato, pur avendo ricevuto proposte di altre occupazioni: ma la realtà concreta e inoppugnabile non faceva per lui, che voleva margini di sogno.

Nell’ultima scena – quella del funerale, che in nota riportiamo -, lo zio Charley, che viene ad assumere la funzione di un moderno coro, dice:

Charley (fermando il gesto e la risposta di Happy) Non calun­niate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy  era un com­messo viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lu­cido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.

Mentre i figli che non hanno riconosciuto il padre, ora meditano sulle parole di Charley, Linda continua ad essere prigioniera del sogno, dell’immaginario, quasi appendice del marito, non un altro da sé; incapace di riconoscere la perdita, per questo non può piangere, sembrandole che il marito continui ad essere in viaggio. Da quanto dice Linda, circa i debiti ripianati dal marito, che proprio allora, quando non ci sono più debiti se ne è andato, parrebbe che Loman possa essersene andato perché ha concluso di pagare i suoi debiti per la famiglia, sentendosi così meno obbligato dal compito di dover provvedere materialmente ad essa.

Requiem

Charley È quasi buio, Linda.

Linda non si muove. Sta con gli occhi fissi alla tomba.

Biff Che ne dici mamma? Un po’ di riposo ti farà bene. Tra poco chiuderanno i cancelli.

Linda resta immobile. Pausa.

Happy (con ira compressa) Che diritto aveva?? Che bisogno aveva di farlo? L’avremmo aiutato noi.

Charley (con un grugnito) Mmm.

Biff Ti alzi, mamma? 

Linda Perché non è venuto nessuno? 

Charley II funerale a me è piaciuto.

Linda Ma tutta la gente che lo conosceva, dov’era? Forse lo giudicano male.

Charley No. Il mondo non è mica facile, Linda. Non possono giu­dicarlo male.

Linda Non capisco. Proprio adesso. La prima volta in trentacinque anni che cominciavamo a liberarci dai debiti. Un piccolo stipendio ed era a posto. Aveva finito perfino di pagare il dentista.

Charley  Lo stipendio. Non basta mica, lo stipendio. 

Linda Non capisco.

Biff Quanti bei giorni. Quando rientrava dal giro; e la dome­nica, a fabbricare il portico davanti alla casa, o ad im­biancare la cantina, o a sistemare la veranda; quando impiantò il secondo bagno e, in quattro e quattr’otto, su, il garage. Sai una cosa, zio Charley, è più suo quel portichetto davanti che tutte le combinazioni d’affari che ha fatto.

Charley Eh, già. Gli davi un cartoccio di calce ed era un uomo felice.

Linda Straordinario, cosa sapeva fare con quelle mani,

Biff    Sbagliava i sogni. Quelli li sbagliava. Tutti! 

Happy (fa quasi per slanciarglisi contro) Lo dici tu! 

Biff Credeva di essere una cosa ed era un’altra.

Charley (fermando il gesto e la risposta di Happy) Non calun­niate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy era un com­messo viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lu­cido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.

Biff  Credeva di essere una cosa ed era un’altra, zio Charley! 

Happy (infuriato) Lo dici tu!

Biff Perché non vieni con me, Happy?

Happy Non mi ritiro cosi facilmente. Io resto in questa città e marcio per la mia strada! (Guarda Biff, risoluto) I fratelli Loman !

Biff Eh no. Io mi conosco.

 

Happy Come ti pare. Farò vedere a te ed a tutti quanti che Willy Loman non è morto per niente. Non sbagliava i sogni. Aveva l’unico sogno che un uomo può avere — diventare il primo in quello che fa. Lui non è riuscito a realizzarlo qui: lo realizzerò io per lui.

Biff (con uno sguardo scettico a Happy, si avvia verso la madre) Andiamo, mamma.

Linda Ti raggiungo fra un minuto. Vai Charley.

Charley esita.

Vai. Un minuto solo. Non mi è ancora riuscito di dirgli addio.

Charley si allontana, seguito da Happy. Biff rimane a una certa distanza in fondo a sinistra di Linda. Lei resta a sedere in terra concentrandosi. Non molto dopo il flauto comincia a suonare sulle sue parole.

Perdonami, caro, non mi viene da piangere. Chi lo sa perché, non mi viene da piangere. Non capisco. Perché l’hai fatto ? Aiutami Willy, non mi viene da piangere. Mi sembra che tu sia partito per il solito giro. Sto qui an­cora ad aspettarti. Willy caro, non mi viene da piangere. Perché l’hai fatto? Mi sforzo, mi sforzo, ma non riesco a capire, Willy. Ho pagato l’ultima rata della casa oggi. Oggi caro. E la casa è vuota. (Un singhiozzo le nasce nella gola) Abbiamo pagato tutti i debiti. (Lasciandosi andare al singhiozzi, liberamente)Abbiamo pagato tutti i debiti. 

Biff scende lentamente verso di lei.

Abbiamo pagato tutti i debiti.

Biff la solleva in piedi ed esce a destra sorreggendola tra le braccia. Linda singhiozza silenziosamente. Bernard e Charley entrano insieme e li se­guono, seguiti da Happy. Sul palcoscenico che si oscura rimane soltanto la musica del flauto mentre sulla casa le torri dei grattacieli si stagliano nella luce e… 

Sipario.

L’agguato o Il travaglio della giustizia

Tratto da una storia vera, “L’agguato”, un film americano del 1993, regista Robert Reiner, protagonisti Alec Baldwin – il giudice -, James Woods – il razzista -, e Whoopi Goldberg – la moglie del nero assassinato -, racconta la storia della vedova di un attivista di colore per i diritti civili che, a venticinque anni di distanza dalla morte del marito ucciso da un razzista bianco poi scagionato, riesce a far riaprire il caso ottenendo finalmente giustizia. 

Nel percorso che va dalla memoria individuale alla memoria collettiva che Paul Ricoeur realizza partendo dagli studi di Freud in “Ricordo, ripetizione, rielaborazione” e in “Lutto e melanconia” si verifica soprattutto il lavoro del lutto come uno scontro di forze psichiche che cercano di cancellare, manipolare, imporre un’altra versione, o di rimuovere un ricordo di un evento accaduto o immaginato dal soggetto. Secondo l’ipotesi dell’equivalenza, lo stesso meccanismo che corrisponde all’abuso della memoria si verifica a livello della memoria collettiva, analizzando la quale si può arrivare a quella individuale, riscontrandone per analogia gli stessi meccanismi.

Nel film, la moglie dell’attivista nero ucciso all’epoca di Martin Luther King, ne mantiene viva la memoria e l’esigenza di giustizia nonostante una sentenza passata in giudicato a causa di una mentalità e di un costume avverso ai neri, attraverso cui erano state cancellate le prove della colpevolezza del razzista, al punto da farlo assolvere. Stranamente sia la donna che il razzista mantengono  viva, ciascuno a suo modo, la memoria dell’evento: la moglie continua a chiedere che sia fatta giustizia seguendo l’evidenza dei fatti e conservando lei dei documenti relativi al processo; il razzista mantenendo la sua sicurezza di bianco impunito e impunibile secondo la sua ottica e quella dei razzisti.  

  pubblicato su Igitur,anno VI (2005) Memoria e oblio a cura di Carla Solivetti, Nuova arnica editrice. Rivista annuale di lingue, letterature e culture moderne.


[1] Maricla Boggio, “Farsi male”, consulenza di Raffaella Bortino, presentazione di Claude Olievenstein, Falzea editore, Vibo Valentia, 2001.