La psicoanalisi e l’argentina in tempo di crisi

Luoghi di violenza, luoghi reali della malattia dell’anima
di Luigi Cancrini

L’UNITA’
6 gennaio 2003
Non capita spesso di ricevere lettere così colte e così stimolanti. Mi è sembrato giusto pubblicarla tutta, dunque, con pochi tagli inevitabili ma (spero) non influenti. Limitandomi, di conseguenza, nella risposta. Per dire, prima di tutto, che la tesi per cui la psicoanalisi è stata utilizzata per proporre una teoria privata della storia (i condizionamenti cui l’essere umano è sottoposto vengono dal suo interno prima che dal suo esterno) non è affatto campata per aria. Ancora oggi, nei paesi ricchi dell’Occidente, la psicoanalisi viene praticata in ambienti molto protetti dal punto di vista economico e sociale. Costa troppo ai pazienti. Richiede, all’analista, un’organizzazione di vita élitaria, non permette a chi si mette in fila per apprenderla di sporcarsi troppo le mani con le forme più comuni e devastanti di patologia. L’umorismo alla Woody Allen sulla psicoanalisi come consumo voluttuario riservato a chi se lo può permettere invece che ai tossicomani o ai pazienti dei dipartimenti di salute mentale, voglio dire, non è del tutto infondato e quello che possiamo dire oggi, a distanza di quasi un secolo da quando essa venne formulata, è che l’auspicio di Freud sulla ricerca di tecniche terapeutiche capaci di superare l’oro puro della psicoanalisi utilizzando leghe meno costose ma altrettanto solide ed efficaci è stato preso sul serio dagli psicoterapeuti che sono usciti dalle società di psicoanalisi più che da quelli che sono rimasti al loro interno. Il che non vuol dire che la ricerca psicoanalitica successiva a Freud non abbia permesso osservazioni fondamentali per tutti sul funzionamento della mente umana e sulla terapia. Il che è importante, però, per dire che molta pratica psicoanalitica ha rinunciato di fatto alla sua vocazione e al suo possibile impatto «rivoluzionario» sul costume, sulle abitudini e sulle visioni del mondo che essa aveva avuto inizialmente. Adattandosi, con uno scetticismo agnostico di cui la posizione assunta dalla scuola di Berlino al tempo di Hitler e della società psicoanalitica argentina ai tempi di Varela sono espressioni fra le più gravi e le meno comprensibili. Sull’istinto di morte, in secondo luogo. Per dire che il dibattito esterno o interno alla psicoanalisi ufficiale, non ha mai messo in discussione l’esistenza di pulsioni contraddittorie alla base del sentire e dell’agire umano. Il problema è stato semmai quello di collegare l’aggressività e le tendenze distruttive all’istinto, innato, costitutivo dell’essere umano e al suo patrimonio genetico o alla frustrazione: all’insieme di violenze grandi e piccole, cioè, cui il bambino viene sottoposto. L’angoscia della persona che diventa dipendente da farmaci o da gioco, da cibo o da potere dipende dalla sua dotazione ereditaria o dalle sue esperienze infantili? Il disorientamento e la difficoltà di strutturare una identità personale da parte del futuro psicotico possono o no essere collegate alle vicissitudini della relazione madre-bambino nei primi mesi di vita? Personalmente propendo, con Bowlby e con tanti altri, per una ricostruzione ambientalista di tutti i futuri disturbi e squilibri di personalità e trovo ingombrante nella clinica e poco utile concettualmente il rinvio ad una dinamica pulsionale tutta determinata dall’interno dell’essere umano. Le conseguenze concrete degli atteggiamenti che si assumono di fronte a questo grande quesito sono di fatto enormi proprio dal punto di vista politico. Credere troppo nell’istinto di morte può portare con una certa facilità a trascurare le situazioni concrete in cui il bambino cresce. Credere, al contrario, nel valore fondamentale delle esperienze realmente vissute dal bambino e dall’adulto lega immediatamente e inscindibilmente la patologia all’ambiente interpersonale e sociale, la pratica della psicoanalisi ad una azione politica sviluppata in una direzione di progresso. Per ciò che riguarda, infine, il collegamento fatto da Francisco Mele (e da me così «perentoriamente» ripreso) sulla rassegnazione di un intero popolo e sulla diffusione, al suo interno, di una interpretazione psicoanalitica della storia e della realtà, quello che vorrei sottolineare è che lei ha sicuramente ragione nel dire che quella di cui parla Mele è una versione semplicistica di un discorso complesso e vitale che meriterebbe ben altro tipo di riscontro e di partecipazione. Quello su cui mi sembra importante riflettere, tuttavia, è il livello straordinario di diffusione di questa cultura di derivazione psicoanalitica in Argentina (un paese in cui il numero degli psicologi e degli studenti di psicologia è da anni incredibilmente alto) e la gravità del tradimento operato, in quel paese, dai vertici delle istituzioni psicoanalitiche nei confronti di quei professionisti e di quegli allievi che sono stati perseguitati e uccisi in massa in ragione proprio del loro impegno nel sociale. Tradimento che non dobbiamo fare noi oggi. Dicendo chiaro che i luoghi delle violenze distruttive sono ancora oggi luoghi, reali, in cui quella che viene costruita con una spietatezza ed una stupidità da bestie furiose è la malattia dell’anima di quello che è oggi un numero enorme di bambini e di ragazzi innocenti e, dunque, sani. Favorendo, dentro di loro, lo sviluppo di una violenza e di una aggressività destinate a spargersi, domani, per le vie del mondo. Qualcuno dovrà pur dirlo un giorno ai fautori delle «guerre giuste» che le guerre non sono mai giuste soprattutto per questo, per la carica di frustrazione che mettono in moto nei cuccioli di uomo che ne subiscono i danni più o meno secondari e per la carica di sensi di colpa che essi mettono in moto nei più sani fra i cuccioli di uomo che assistono da lontano, da luoghi protetti, al dispiegarsi della violenza senza senso che arma le mani dei loro genitori. Ancora una volta, quello che viene da pensare è che il male capace di avvelenare la vita dell’uomo e delle masse di cui l’uomo si trova a far parte non è inevitabile. Dipende dagli errori, politicamente evitabili, che alcuni continuano a fare nel silenzio dei tanti che non fanno abbastanza per impedirglielo. È un’eresia la mia se dico che c’è un collegamento fra lo stupore doloroso di Freud di fronte alla potenza dell’istinto di morte e lo stupore doloroso da lui personalmente vissuto di fronte ad una guerra atroce di cui non riusciva a darsi pace, di cui non riusciva a capire il senso?
6 January 2003 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 31) nella sezione “Commenti”