GUGLIELMINA W. PRONIPOTE DI WAGNER

FRANCISCO MELE

In quegli anni ho conosciuto Guglielmina Walter, tedesca, pronipote del musicista Richard Wagner, donna di raffinata cultura che soffriva di un disturbo maniaco-depressivo.
Quando l’ho conosciuta, Guglielmina era ricoverata già da trent’anni in quell’ospedale. Mi risultava difficile capire come fossero stati sufficienti i motivi per i quali vi era stata rinchiusa: dava fastidio ai vicini, in quanto suonava il pianoforte anche di notte, diffondendo all’intorno le note di marce funebri da lei predilette; la sua opera preferita era la sonata numero due opera trentacinque di Chopin, ed anche la sonata per pianoforte numero dodici opera ventisei di Beethoven. Le piaceva inoltre ascoltare ad alto volume la marcia funebre del Sigfrido scritta dal suo celebre antenato.

Nei primi anni Settanta mi avvicinai al mondo della follia, in quanto studente di psicologia a Buenos Aires. Seguivo alcuni casi all’ospedale psichiatrico di Lomas de Zamora, che avevano suscitato in particolare il mio interesse.

L’approccio alla psicosi coincide per me con l’esperienza a un metodo di intervento umano che si era sostituito al sistema del contenimento coercitivo dell’elettroshock e della camicia di forza.
Le idee partite da Franco Basaglia e dal suo staff dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, come gli studi di Michel Foucault sulla storia della follia in Occidente, avevano generato forti fermenti e un contrasto fra la vecchia e la nuova psichiatria. La speranza di liberare i malati coincideva con un progetto utopico di una società che si facesse carico, in una prospettiva di uguaglianza, anche dei soggetti più deboli sui quali si abbatteva in maniera preponderante un’immagine manichea della follia.
In questo contesto, conosco alcuni personaggi che avevano subìto l’emarginazione attraverso il processo manicomiale. Erano i primi anni del Settanta: in quel periodo si poteva rinchiudere una persona in manicomio per motivazioni diverse dalla malattia, dettate da interessi economici, di eredità, di rapporti interfamiliari. Non so se tutti quelli che ho conosciuto erano stati costretti a vivere in manicomio per altre ragioni esterne alla malattia in sé. Certo alcuni sembravano essere stati obbligati a quella esistenza con la complicità del sistema sanitario e di quello giudiziario. La lotta per la liberazione dei degenti è stata prevalentemente politica, partita dall’Italia e ben presto diffusasi in molti altri paesi, fra cui, in particolare, l’Argentina, dove la cultura italiana trovava ampio spazio per via degli abitanti spesso di origine italiana.
In Argentina si viveva un clima di effervescenza culturale, che purtroppo ben presto si concluse a causa della presa di potere dei militari attraverso il colpo di Stato.
In quegli anni ho conosciuto Guglielmina Walter, tedesca, pronipote del musicista Richard Wagner, donna di raffinata cultura che soffriva di un disturbo maniaco-depressivo.
Quando l’ho conosciuta, Guglielmina era ricoverata già da trent’anni in quell’ospedale. Mi risultava difficile capire come fossero stati sufficienti i motivi per i quali vi era stata rinchiusa: dava fastidio ai vicini, in quanto suonava il pianoforte anche di notte, diffondendo all’intorno le note di marce funebri da lei predilette; la sua opera preferita era la sonata numero due opera trentacinque di Chopin, ed anche la sonata per pianoforte numero dodici opera ventisei di Beethoven. Le piaceva inoltre ascoltare ad alto volume la marcia funebre del Sigfrido scritta dal suo celebre antenato.
Le fasi del suo disturbo maniaco-depressivo si alternavano fra un’intensa attività – poteva stare dodici ore seduta al pianoforte – e periodi di totale apatia.
In ospedale la si vedeva sdraiata sul letto o appoggiata a terra, il busto eretto, le gambe rigide a squadra, immobile, piccola e fragile; non mangiava né parlava, anche se qualcuno le rivolgeva la parola.
In quegli anni io studiavo il violino. La mia insegnante venne a sapere del mio impegno in manicomio e della presenza di Guglielmina, che in tutti gli anni della degenza non aveva più avuto la possibilità di suonare. Decise allora di offrire all’ospedale uno dei suoi pianoforti.
Io portai questa notizia a Guglielmina: la donna cominciò allora ad agitarsi in preda ad una gioia debordante e frenetica. Finalmente, ottenuto il permesso dalla direttrice che aveva manifestato un certo stupore, misto a scetticismo circa l’uso dello strumento da parte di quanti considerava incapaci di fruirne, feci portare il pianoforte al padiglione tre della struttura, dove, con un’ottantina di altri malati, viveva Guglielmina. Mentre tutti i degenti erano in fervida attesa che il pianoforte venisse calato dal camion che lo trasportava, all’improvviso Guglielmina cade in depressione: rimane muta, immobile, come paralizzata, mentre il piano viene collocato nel mezzo del salone.
In quello stesso padiglione un’altra degente, Maria Adelaide, viveva letteralmente per terra. Era di corporatura enorme, e di una grassezza debordante; incapace di usare le posate, mangiava con le mani trascinando il piatto sul pavimento. Ne ricordo le dita nodose, gigantesche e gli occhi chiusi, come se la sua esistenza fosse incentrata dentro un suo mondo interno. Quando il pianoforte sta per essere scaricato dagli operai, Maria Adelaide ha un sussulto: si alza faticosamente e con una insospettabile agilità si slancia sullo strumento. Tutti i presenti provano un brivido temendo un disastro. La donna con la forza del suo peso poteva distruggere il pianoforte, mentre Guglielmina, da cui mi sarei aspettato una reazione positiva verso lo strumento da lei tanto amato, si era ritirata in un angolo, assente all’apparenza a quanto stava accadendo.
Arrivata al pianoforte, Maria Adelaide siede sullo sgabello sistemato accanto, e comincia a suonare: le sue dita enormi parevano aver acquistato magicamente agilità e sapienza. La donna aveva affrontato un pezzo piuttosto complicato di Ravel con una sicurezza che stupiva gli astanti, non solo per la sorpresa di vederla suonare, dopo anni di apatìa, ma anche perché non era quasi più umana nell’aspetto, immersa com’era stata fino a quel momento in una sorta di animalesca e stuporosa assenza, tutt’al più muovendosi in maniera ondeggiante, a contatto con il pavimento. Dopo quel giorno, per alcuni mesi Maria Adelaide continua a suonare il piano, ritrovando per una mezz’ora al giorno la vivacità e l’estro di un tempo, dopo di che tornava al suo stadio autistico. Intanto Guglielmina continuava a restare assopita nel suo stato depressivo; era arrivata a non mangiare più e veniva nutrita con delle flebo.
Passò così tutto l’inverno. A primavera, come uscendo da un lungo letargo, un giorno Guglielmina, udendo il suono del pianoforte che Maria Adelaide stava suonando, le si avvicinò e con tono imperativo disse alla donna: “Lascia me!”. Maria Adelaide, pur essendo gigantesca rispetto a quella figura mingherlina, avvertì una sorta di superiorità dell’altra nei suoi confronti, e subito si alzò cedendole il posto. Guglielmina cominciò a percorrere la tastiera con una maestria che difficilmente si sarebbe potuta prevedere in lei, da decenni avulsa dal mondo e ancor più dalla musica. Io osservavo la scena. Mi rendevo conto che Guglielmina inseguiva antichi ricordi di un pezzo di Rachmaninov, il concerto numero 3, scritto per piano e per quell’orchestra che forse lei sentiva risuonare nella sua testa. Insieme al pianoforte, la mia insegnante di violino aveva donato numerosi spartiti. Li portai a Guglielmina che vi si gettò affamata di quelle carte, ricavandone con maestria i suoni che vi erano segnati. Quando smetteva di suonare, parlava concitatamente di quei pezzi, dei quali conosceva gli autori, le loro storie, gli stili: attraverso la musica aveva riacquistato anche la ricchezza di un linguaggio da lei scomparso per decenni.
Dal momento che la donna pareva essere tornata ad una sorta di almeno parziale normalità, decidemmo di chiederle di suonare durante una festa che si stava organizzando all’ospedale, in occasione della venuta del vescovo della città. Lei accettò con slancio. Erano allora prove infinite che Guglielmina svolgeva con lo strumento diventato ormai il suo compagno, mentre gli altri degenti, che per un po’ l’avevano attorniata incuriositi e contenti, l’avevano poi lasciata sola in mezzo al salone, ormai sazi di tante ore di ripetizioni.
Il concerto si fece, e il vescovo, che era di origine tedesca andò a complimentarsi con la pianista, parlando con lei della Germania, degli artisti e soprattutto di Wagner, come se l’incontro fosse avvenuto in una vera sala da concerti, fra un’artista ed un suo ammiratore.

La mediazione musicale

La musica costituisce un mezzo di comunicazione che attraversa le barriere culturali e spezza le difese dei soggetti più rigidi o incontra il nucleo creativo delle persone che hanno subìto un disastro a livello esistenziale. Nell’ospedale psichiatrico mi è capitato di assistere all’utilizzo della musica per la riabilitazione dei pazienti; di questa esperienza mi rimane il ricordo di come soggetti che avevano passato tutta una vita in manicomio, autistici, incapaci di esprimere se stessi attraverso un linguaggio verbale, indifferenti a qualsiasi stimolo esterno, cominciavano ad agitarsi e a muoversi seguendo delle melodie quando il musicoterapeuta era riuscito a individuare in questi individui il momento del crollo psichico. La musica scelta riguardava i temi del periodo che coincideva con il momento precedente alla catastrofe psicotica. Come se la musica facesse riagganciare il soggetto al tempo in cui poteva godere, sentire, percepire quell’universo sonoro e con esso recuperare il mondo vitale.

Un altro episodio, da me sperimentato alla fine degli anni Settanta circa l’effetto della musica su degenti psichiatrici, riguarda un musicista che aveva impostato un metodo di insegnamento all’apparenza molto efficace. Questo musicista aveva realizzato un pentagramma sul quale disponeva una partitura. Davanti a questo pentagramma c’era un’asta che si muoveva con spostamenti diversi a seconda delle note; ogni nota era segnata con un colore particolare che veniva poi riprodotto sulla tastiera di un pianoforte o di una fisarmonica. Attraverso questo sistema, persone che non avevano mai suonato uno strumento, nell’arco di una quindicina di giorni erano riuscite ad eseguire un tango, un valzer, delle musiche popolari. Mentre queste persone suonavano, la musica riprodotta veniva registrata; esse poi ascoltavano quello che ne era venuto fuori e si correggevano loro stesse, in grado di rendersi conto degli sbagli fatti.

E’ accertato che la musica può avere un effetto terapeutico in persone disturbate, può aiutare le persone normali a raggiungere una certa armonia interiore o può anche scatenare sentimenti violenti, provocare disordini interiori o esaltare emozioni distruttive. Talvolta si dà per accertato che la musica di per sé costituisca elemento di rasserenazione, equilibrio, armonia interiore. Conoscendo la vita di tanti musicisti, compositori o esecutori di alto livello, si riscontra in essi una esistenza difficile, contrastata, talvolta al limite della disperazione e del suicidio. Si tratta sempre, sia che riguardi il rapporto con altri artisti, sia con se stessi, di competitività all’estremo: invidie, gelosie, furori per il successo altrui sempre o quasi considerato come immeritato e comunque inadeguato rispetto al proprio, nei confronti di altri musicisti; tormento alla ricerca della perfezione, disagio della propria inadeguatezza in rapporto al modello prefisso, fino al raggiungimento, mai perfetto, del massimo livello espressivo. Oppure la follia.

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