LO SPAZIO E IL POTERE IN SUPERVISIONE

FRANCISCO MELE

E’ corretto continuare a usare il termine supervisione? Si è visto che alcuni autori preferiscono ad esempio il concetto di paravisione.
La supervisione riguarda una visione dall’alto, quasi di un fratello maggiore, o quella del panopticon di Bentham descritto da Foucault; un grande occhio circolare usato nel sistema penitenziario, che osserva tutto e tutti, mentre chi è osservato non sa da chi e quando viene osservato: questa struttura del panopticon richiama con efficacia il sistema di sorveglianza che, non più in senso strettamente architettonico ma come disciplina del sistema penitenziario, è disceso poi nella struttura della fabbrica, della scuola, delle istituzioni. Lo specchio unidirezionale è il sogno che avrebbe voluto Bentham. Certo che nell’ambito della terapia familiare non viene utilizzato con gli stessi scopi dalla guardia carceraria o dal capo che vuole controllare se i suoi impiegati lavorano.

Lo spazio della supervisione

Lo spazio della supervisione diretta può essere rapportata a due categorie elaborate da uno storico, Reinhart Koselleck, “lo spazio di esperienza” e “l’orizzonte d’attesa”. Estrapolando questi concetti dal campo della storia e riferendoli alla supervisione, si può considerare lo spazio di esperienza come il proprio vissuto, esaminato il quale, il soggetto riflette staccandolo dal contingente; quindi, nel riflettere, il contingente viene trasformato; il soggetto, dopo la riflessione, modifica il modo di raccontare l’esperienza vissuta.
Il concetto di orizzonte di attesa riguarda il dispiegamento del presente verso il futuro, e l’effetto del futuro nel presente, che poi ha un effetto sul passato. L’introduzione della storia stacca l’esperienza dall’idea della ripetizione; si esce dalla prospettiva dell’eterno ritorno per entrare in una prospettiva a spirale, se c’è un ritorno, è a un livello più alto, quindi esso non è identico al primo; tornare da un punto di vista più in alto permette di distanziare e oggettivare il proprio vissuto; solo in questo modo è possibile pensare a una mossa diversa, fuori dal circuito dello stimolo-risposta, per entrare in quel percorso che porta al deutero-apprendimento di Bateson.
Anche l’apprendimento comporta una gerarchia di tipi. Al livello più basso c’è il proto-apprendimento, che rappresenta il tipo più semplice di apprendimento. Al livello superiore esiste il deutero-apprendimento, con il quale l’individuo apprende ad apprendere. La terapia deve mirare ad un cambiamento dell’epistemologia, del modo di concepire la personalità nel mondo.

Il concetto di orizzonte di attesa permette di immaginare una possibile azione da parte del paziente. Nelle pre-sedute il supervisore chiede al terapeuta i punti fondamentale dell’ultima seduta, se ci sono state indicate delle prescrizioni; gli chiede poi, secondo questo racconto, che cosa si aspetta lui e come immagina che la famiglia abbia reagito rispetto alla seduta precedente e infine quali mosse si prevedono in questa seduta. L’orizzonte di attesa della famiglia permette di valutare le aspettative, gli obbiettivi, i desideri di ciascuno dei suoi componenti.
E’ importante analizzare anche l’orizzonte di attesa del terapeuta stesso: è capace di immaginarsi in una situazione differente da quella attuale?; ha un pensiero negativo o un pensiero positivo? Se il pensiero del terapeuta non si innalza al di sopra dei dati, come può aiutare la famiglia a immaginare il proprio futuro oltre l’immediato? E’ utile a tale scopo utilizzare il disegno della famiglia, soprattutto quello proiettato nel futuro, ad esempio dopo cinque anni. Se un terapeuta in fase di formazione vive ancora con i genitori, come potrà incidere in una terapia in cui il problema è lo svincolo dalla famiglia d’origine?

Il supervisore deve fare i conti con l’essere dimenticato. Una buona supervisione funziona come quella dell’arbitro in uno stadio, tutto sembra funzionare bene, e quindi, tutti si dimenticano dell’arbitro. Tante volte il terapeuta in supervisione riconosce gli sforzi della supervisione, dopo di ché capita spesso, che il terapeuta, ad esempio scrive su una famiglia in terapia, dimentica gli interventi del supervisore. Credo che deve essere doloroso o non tollerato dal narcissismo del terapeuta il debito che istaura con il supervisore. E’ vero, che quando un terapeuta agisce mette in moto tutto il corredo intellettuale ereditato da tanti maestri, come fare a distinguerli; questo non poter distinguerli non vuol dire dimenticarli o pensare che uno si “è fatto da sé”.

La supervisione diretta è un vero campo di tensioni; non si può rimanere indifferenti e lontani dalle forze che si contrastano; si possono paragonare le diverse posizioni teoriche e ipotesi di azioni al “conflitto delle interpretazioni” descritto da Paul Ricoeur. Nella supervisione sistemico-relazionale si mette in atto il conflitto delle mosse più giuste. Il concetto di prhonesis aristotelica, che riguarda il collegare ad ogni azione particolare il principio universale della norma etica, serve per capire lo sforzo del terapeuta e del supervisore a riportare sul piano dell’azione particolare – la mossa o intervento terapeutico – un concetto teorico che ha una valenza più generale.
Vedere il maestro in azione è trovarlo a combattere contro le difficoltà della terapia che nei libri sembrano risolte con due o tre mosse “geniali”. La realtà è diversa dalla teoria, ma la teoria è valida se parte dalla realtà; quando è la stessa realtà a suggerire un concetto o il concetto agisce e modifica la realtà, si può ritenere che il concetto sia operativo. Il lavoro clinico è anche un lavoro di sfida intellettuale e scientifica; obbliga i soggetti in azione a rivedere posizioni, prospettive, affermazioni che, quando si è giovani, si esprimono in forma apodittica e senza nessuna incertezza.

Come può lo spazio della supervisione diventare il luogo del riconoscimento senza costituirsi come luogo di potere? Il ruolo del supervisore, così come quello dell’educatore, è di saper entrare nella vita dell’altro e poi di saperne uscire senza lasciarvi un’impronta così determinante da far divenire una sorta di sua copia il soggetto in cura.
“Voi soli – dice Socrate ai filosofi e ai politici – avete luogo e potete dire al tempo stesso il luogo e il non luogo della verità; ecco perché vi restituisco la parola. Dare la parola all’altro significa dire: avete luogo, abbiate luogo, venite” .
Il ruolo del terapeuta – quindi per noi del supervisore – è quello di rimettere la parola in movimento. Quando il soggetto riprende l’uso della parola, diventa protagonista e quindi capace di lasciare tracce di sé. Attraverso l’azione del terapeuta – che “sa parlare e sa tacere quando è necessario”, secondo la formula di Socrate nel “Fedro” – la parola che è bloccata nel sintomo viene rimessa in circolazione .
Socrate dice:
“Così è in effetti, o caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su queste cose, credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo un’anima adatta, si piantino e si seminino discorsi con conoscenza, che siano capaci di venire in soccorso a sé e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella misura più grande che all’uomo sia possibile” .

Che cosa opera nella terapia? E’ la persona del terapeuta?, la cornice teorica?, il contesto come luogo? Si può misurare l’effetto della funzione terapeutica come si può misurare l’effetto di un antibiotico?

Tra agire comunicativo e agire strategico

Nell’agire comunicativo si deve accettare che esistano processi cooperativi di interpretazione, in cui nessuno dei partecipanti può pretendere di avere il monopolio: in esso il linguaggio è realmente un medium di comunicazione che serve alla comprensione e all’intesa, e non alla violenza per cui il linguaggio perde il suo valore comunicativo per diventare un’azione che rompe con le regole del gioco linguistico.

L’agire strategico è quello che utilizza lo scienziato per arrivare a un successo attraverso teorie e tecniche attraverso cui manipola gli oggetti della natura; il discorso che realizza lo scienziato appartiene alla terza persona; invece nell’agire comunicativo abbiamo le due prime persone – io, tu – e nell’agire drammaturgico si evidenzia la prima persona del singolare. Le azioni possono essere giuste o ingiuste, confrontate con un contesto normativo riconosciuto come legittimo. Nel nostro ambito mi occuperò soltanto dell’agire strategico e di quello comunicativo.

L’agire strategico è orientato a raggiungere uno scopo. Alla base esiste una razionalità che si estrinseca nell’azione scientifica che serve a organizzare piani e progetti per il raggiungimento di un risultato; questa stessa razionalità la troviamo nel mondo economico, che persegue attraverso il calcolo un risultato nell’ambito dell’interesse; predomina qui la logica utilitaristica. In questo agire, il linguaggio compie una funzione di influenza: una persona utilizza il linguaggio al fine di vendere lucrativamente un determinato prodotto, convincendo l’altro ad accogliere la sua proposta.
L’agire strategico, applicato alla sfera delle relazioni interpersonali, può degenerare in un agire manipolativo delle persone. La manipolazione può essere conscia, in quanto il manipolatore ha una volontà chiara di influire e di manipolare l’altro, o può essere inconscia, nel senso che la persona non si rende conto che con il suo atteggiamento apparentemente proteso al bene – una madre iperprotettiva, una ragazza istericamente seduttiva – in realtà produce un effetto negativo, deleterio, creando illusionie aspettative.
Diversamente Jay Haley ( 1997) ritiene che il terapeuta debba effettivamente influenzare il paziente anche manipolandolo, in quanto l’obbiettivo è quello di eliminare il sintomo e ridurre quindi la sofferenza del paziente, si tratterebbe di una manipolazione “a fin di bene”.

Il concetto di agire comunicativo si riferisce all’interazione di almeno due soggetti capaci di linguaggio e di azione: attraverso un linguaggio verbale o non, essi riescono a stabilire una relazione interpersonale. Nell’agire comunicativo gli attori cercano un’intesa per coordinare di comune accordo i propri piani di azione e quindi il proprio agire; esso presuppone il linguaggio come medium di un tipo di processo di comprensione e intesa, durante il cui svolgimento – afferma Habermas – i partecipanti sollevano reciprocamente pretese di validità.

Cosa accade fra terapeuta e supervisore che hanno come obbietivo la terapia di un paziente o di una famiglia? Supervisore e terapeuta si incontrano perché esiste un terzo in questione, il paziente. Questo incontro dovrebbe giovare al paziente, in quanto un buon intervento scaturito tra l’intesa supervisore/terapeuta lo aiuterebbe a guarire; dovrebbe essere utile al terapeuta perché un terzo – il supervisore – lo può aiutare a non cadere nella trappola del sistema famigliare. Per non cadere in questo sistema, il terapeuta deve conoscere le regole di funzionamento della famiglia, essendole molto vicino; è quindi un osservatore e al tempo stesso un attore che fa parte del campo di osservazione: in tale posizione non sempre può essere in grado di stare dentro e fuori in una posizione intermedia.
L’agire del terapeuta/supervisore si delinea come un agire particolare. Il rapporto tra supervisore e terapeuta si muove in una zona dove si oscilla fra l’agire strumentale e l’agire comunicativo. L’agire strumentale è in sostanza un discorso scientifico che tocca la vita intima degli attori. Il supervisore deve valutare la risonanza emotiva che produce nel terapeuta l’agire della famiglia, che ha di solito un connotato manipolativo. La complessità del lavoro in terapia richiede la capacità di mantenersi in una terza posizione, utilizzando il linguaggio della terza persona quando i protagonisti si muovono sul registro della prima/seconda persona. L’esame della situazione comporta lo sviluppo di quel terzo occhio che possa permettere di vedere mentre si sta agendo; il supervisore deve in sostanza occupare il posto del terzo occhio che deve essere interiorizzato dal terapeuta, fino al giorno in cui non ne avrà più bisogno, e dovrà lavorare senza il supervisore dietro lo specchio.

In sintesi, la supervisione dovrà garantire che l’agire strumentale non diventi agire manipolativo e garantire che l’agire comunicativo non si trasformi in un agire pressocché famigliare e amichevole tra terapeuta e paziente, o addirittura non diventi parte della famiglia o non si trovi ostaggio di un gioco di cui ha perso il controllo.

Terapeuta e supervisore si incontrano per parlare di un terzo, il paziente; ma il terapeuta parlando del paziente al supervisore parla dell’effetto della parola e dell’azione del paziente su di sé, e non deve dimenticare che parla anche di sé, dei suoi punti deboli e aree cieche, del suo modo di vedere il mondo, che non può essere totalmente neutro come pretendono alcuni teorici, che vorrebbero che si tenessero sedute asettiche, prive di elementi personali.

Il lavoro del supervisore assomiglia al lavoro del regista di teatro che insegna l’attore a trovare il suo proprio modo di interpretare un personaggio, fornendogli tuttavia degli strumenti per poter recitare al meglio senza perdere i controllo degli altri attori. Ci sono dei registi che induccono l’attore a dover imitare il modo che lo stesso regista interpreta un personaggio; il grande regista, cerca di indagare sulla personalità dell’attore affinché, partendo della sua personalità e delle sue possibilità possa interpretare il personaggio; un regista maestro offre un metodo di interpretazione, e non impone se stesso come modello da imitare.

L’agire del supervisore dovrà aiutare anche il terapeuta a controllare gesti, movimenti, linguaggio; è importante aver cura di correggere ad esempio quanti usano una sintassi scorretta a rischio di annullare il messaggio. Ci sono terapeuti che chiudono un’affermazione con “no”, altri che iniziano un discorso con “niente”, moltissimi che usano in continuazione “come dire”, “insomma”, “appunto” e “in qualche modo”; essi induono a ritenere che abbiano loro stessi bisogno di una più approfondita conoscenza di sé.; senza contare il modo di vestire e di atteggiarsi, messaggi non verbali che influiscono nel rapporto con la famiglia. Per farsi accettare da tossicodipendente dei terapeuti, credendo di agire al meglio, hanno perfino adottato lo stesso loro modo comportamento.

Il rapporto del supervisore e l’allievo terapeuta che in sala di terapia non può prescindere dal rapporto del supervisore con gli altri allievi, quelli che si trovano dietro lo specchio.
Haley scrive: “Dovrebbe essere chiaro a tutti i membri del gruppo di formazione che il responsabile è il supervisore. Le idee e i suggerimenti che vengono comunicati al supervisore e il supervisore li comunica ai terapeuti. Vale dire che quando un terapeuta esce dalla stanza in cui si svolge la psicoterapia avendo bisogno di un piano, il gruppo dei trainee non dovrebbe comportarsi come un gruppo democratico e dare il via a un bombardamento di idee”. La posizione di Haley è chiara nell’attribuire al supervisore tutta la responsabilità dell’esito della terapia; Haley è diffidente dai terapeuti che pensano secondo lo schema della psicoterapia tradizionale e non su quella breve, sicuramente si trova meglio con i principianti. Si apre un dibattito se è possibile utilizzare al meglio i contributi degli altri componenti del gruppo e sul tema della gestione del potere in tutto il processo terapeutico .

Un’analisi critica sulla questione del potere in supervisione

Nel suo studio sulle istituzioni, Michel Foucault esamina certe forme di controllo e di potere; in particolare analizza il “panopticon”, un grande occhio circolare usato nel sistema penitenziario, che osserva tutto e tutti, mentre chi è osservato non sa da chi e quando viene osservato: questa struttura del panopticon richiama con efficacia il sistema di sorveglianza che, non più in senso strettamente architettonico ma come disciplina dal sistema penitenziario, è disceso poi nella struttura della fabbrica, della scuola, delle istituzioni pubbliche e degli enti privati di tipo impiegatizio.

E’ corretto continuare a usare il termine supervisione? Si è visto che alcuni autori preferiscono ad esempio il concetto di paravisione.
La supervisione riguarda una visione dall’alto, quasi di un fratello maggiore, o quella del panopticon di Bentham descritto da Foucault; un grande occhio circolare usato nel sistema penitenziario, che osserva tutto e tutti, mentre chi è osservato non sa da chi e quando viene osservato: questa struttura del panopticon richiama con efficacia il sistema di sorveglianza che, non più in senso strettamente architettonico ma come disciplina del sistema penitenziario, è disceso poi nella struttura della fabbrica, della scuola, delle istituzioni. Lo specchio unidirezionale è il sogno che avrebbe voluto Bentham. Certo che nell’ambito della terapia familiare non viene utilizzato con gli stessi scopi dalla guardia carceraria o dal capo che vuole controllare se i suoi impiegati lavorano.

Senza voler discutere la questione circa lla tecnica del potere, a noi interessa descrivere la circolarità del processo di osservazione. Osservare per acquisire conoscenze che aumentino il potere di colui che controlla e possiede l’informazione. Questa conoscenza e questo potere dovrebbero servire al processo terapeutico della famiglia e all’aumento delle competenze del terapeuta.

La questione che si pone è se esiste un transfert fra terapeuta e supervisore dello stesso livello di quello fra paziente e terapeuta. Alcuni hanno teorizzato che il supervisore deve ascoltare i propri sentimenti e le proprie emozioni (controtransfert) che dovrebbero riprodurre in parte la relazione transferenziale fra paziente e terapeuta. Questa analisi può essere valida in un contesto di supervisione indiretta, ma in una supervisione diretta – dietro lo specchio – transfert e controtransfert circolano in un modo che diventano ancora più complessi; inoltre, il controtransfert del supervisore è diverso da quello del terapeuta; in un contesto di supervisione diretta può scatenarsi una situazione di rivalità, di ostilità o di sottomissione tra terapeuta e supervisore, attraverso la quale la famiglia diventa soltanto l’oggetto della contesa.
Si è verificato un caso in cui un adolescente con un’organizzazione di personalità al limite ha realizzato, attraverso un acting out in seduta, il desiderio del terapeuta che, essendo in conflitto con il supervisore, aveva avuto dentro di sé il desiderio di aggredirlo: a un intervento del terapeuta, il paziente esce dalla stanza e va ad aggredire il supervisore, pensando che era stato questo a suggerire al terapeuta la frase a lui rivolta “Sei un parassita”. Il ragazzo ha voluto così salvare il rapporto con il terapeuta, del quale in nessun momento si era lamentato; egli era abituato a capire i desideri contrastanti dei genitori, soprattutto della madre contro il padre, e si era praticamente impegnato ad essere il giustiziere della mamma trascurata dal marito.

Il supervisore vede la famiglia, conosce la famiglia; la famiglia proietta i suoi contenuti consci e inconsci nel supervisore e talvolta arriva a creare una scissione fra terapeuta e supervisore, svalutando l’uno a vantaggio dell’altro. La famiglia – o qualche integrante della stessa – alcune volte parla al terapeuta perché sia il supervisore a sentire.
Spesso la famiglia si avvicina a un centro di terapia perché conosce il supervisore, perché persona di una certa fama; poi si vede indirizzata a un giovane “collega”: non sempre allora accetta volentieri questo invio e quindi non riesce a stabilire un buon rapporto iniziale.
Il lavoro del supervisore comporta anche quello di insediare il terapeuta nella sua funzione di terapeuta.
L’altra domanda che si pone in un contesto di supervisione – e di formazione, dal momento che che ogni supervisione è anche un’azione formativa – è quella di capire se i concetti di transfert e controtransfert sono pertinenti, dato che fra terapeuta e supervisore non esiste lo stesso rapporto che esiste fra terapeuta e paziente, e di differenziarli.
Questa differenza è stata trattata da Leon Grimberg, definendo la relazione di supervisione come un aspetto fondamentale della formazione del terapeuta, con la diade identificazione /controidentificazione. Essere come il maestro non vuol dire occupare il posto di questo maestro, né diventare un suo clone.
Secondo me il supervisore si pone due questioni fondamentali.
La prima è una riattualizzazione di quella socratica; un uomo è saggio quando sa quando deve parlare e quando deve tacere, cioè, per noi, quando deve intervenire, quando deve entrare in stanza di terapia, quando deve far uscire dalla stanza di terapia un terapeuta, e cosa dire e cosa non dire dietro lo specchio.
La seconda questione mi deriva da Gadamer, quando il filosofo elabora il concetto dell’essere consapevole dell’effetto della propria azione.

Dalla tecnologia del potere alla tecnologia del sé

Quando Socrate entra nella vita di Alcibiade, non gli dice cosa deve fare per governare, suggerendogli precise funzioni relative all’arte del comandare o del governare la città, bensì gli pone una serie di questioni che riguardano le regole, la legge, la giustizia, la concordia; in sostanza gli chiede la cura di sé. La cura di sé non attiene soltanto alla cura del corpo, ma anche dell’anima. L’obbiettivo allora è quello della ricerca della felicità e della saggezza. Per i primi cristiani la cura di sé è rappresentata dal raggiungimento della perfezione e della salvezza.
La cura di sé, secondo Michel Foucault (2005), costituisce una tekné, che rientra in uno dei quattro tipi di tecnologia, quella rappresentata appunto dalla tecnologia del sé.
I quattro tipi sono:
! – le tecnologie della produzione, che riguardano la trasformazione della materia in oggetti;
2 – le tecnologie dei sistemi di segni, che riguardano lo studio dei simboli, dei significati o delle significazioni;
3 – le tecnologie del potere, che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni;
4 – le tecnologie del sé: “che permettono agli individui di eseguire, con i propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima -. dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità”.
Rispetto a queste quattro tecnologie dove si colloca la supervisione?
A mio giudizio, essa tocca sia la terza che la quarta tecnologia, differenziandosi dalla funzione del terapeuta: il terapeuta si occupa della cura del sé del paziente; ciò avviene non più, come in passato, curando gli aspetti della felicità, della salvezza e così via in relazione a questo: secondo Freud la finalità è quella per cui il paziente è guarito quando è capace di amare e di lavorare.

La teoria sistemica afferma che un paziente guarisce quando è capace di svincolarsi autonomamente dalla famiglia di origine senza rompere i legami affettivi, ossia differenziandosi dal sistema familiare di apprtenenza, ed è capace di costruire una propria famiglia, di lavorare, di saper entrare congruamente nei diversi sistemi sociali.

La funzione del supervisore è quella di intervenire nel modo di interagire del terapeuta nei confronti del paziente o della famiglia in cura. Anche il terapeuta tocca sia la terza che la quarta tecnologia, però dovrebbe occuparsi maggiormente dell’aspetto della cura del sé verso il paziente; in tale funzione il terapeuta non deve ammaestrare il paziente nell’arte di vivere nel mondo, mentre il supervisore esercita un certo modo di ammaestramento attraverso cui l’allievo apprende ad essere terapeuta. Questa forma di insegnamento è tuttavia lontana da quella attraverso la quale un falegname, ad esempio, insegna all’allievo a fare una porta: fra l’oggetto di elaborazione – cioè la porta – e l’allievo permane una differenza di genere: che l’allievo sia buono, comprenda l’animo umano e abbia o non abbia paura della morte, non incide sulla sua capacità di imparare a modellare il legno. Il terapeuta invece, in ogni terapia si trova a dover affrontare anche le sue questioni personali, soprattutto quelle ancora non risolte, di sé. In ogni terapia si gioca la personalità del terapeuta, la sua simpatia, il modo di relzionarsi con gli altri, le sue paure, i dubbi, le ossessioni, la capacità di immaginazione e di collegare e fare sintesi, costruire ipotesi, in relazione a quanto il paziente racconta, evoca e suscita in lui. Per tali motivi la terapia non può essere considerata una scienza esatta, ma, pur contenendo degli elementi di scientificità, non vi appartiene appieno mentre entra nell’ambito dell’arte terapeutica. un terapeuta può prevedere certe mosse iniziali del paziente o della famiglia in cura, ma non potrà mai arrivare dall’inizio a prevedere l’intero corso della seduta e meno che mai dell’intera terapia quanto a tempi e a risultati, muovendosi nell’area delle probabilità o meglio delle possibilità e, più ancora, delle incertezze. La funzione del supervisore si limita a cercare di ridurre l’incertezza, l’irrazionalità, il dubbio.

La cura degli altri implica una cura di sé, ma la cura di sé – dice Foucault seguendo il pensiero degli antichi greci – ha bisogno di passare attraverso il rapporto con qualcun altro, che è il maestro.
Ci sono delle differenze fra un maestro di vita e un supervisore? Il supervisore non è un maestro di vita, ma come maestro si prende cura della cura di chi ha una funzione di guida per altri, di coloro che si prendono cura degli altri.

Il tipo di autorità della figura del supervisore può essere letto da un punto di vista più incoraggiante di quello che fa Foucault, che fa una critica spietata a qualsiasi forma di potere, dal direttore di coscienza, a colui che governa gli uomini e, per analogia, senz’altro la funzione di supervisore.
H. G. Gadamer (1996) cerca di eliminare il pregiudizio sul concetto di autorità, In Verità e Metodo scrive:
“L’autorità non ha il suo fondamento ultimo in un atto di sottomissione e di abdicazione della ragione, ma in un atto di riconoscimento e di conoscenza, (…) cioè sta al di sopra del nostro proprio giudizio (…) Essa si fonda su un riconoscimento, e quindi su un’azione della ragione stessa, che, consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri. Questo senso dell’autorità non ha nulla a che fare con la cieca sottomissione a un comando. (…) L’autorità non ha nulla da fare con l’obbedienza ma con la conoscenza. L’autorità è connessa al fatto di poter comandare e di trovare ascolto.” .

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