L’ATTORE IN UN CONTESTO DI INCERTEZZA

LUCA RONCONI E FRANCISCO MELE

 

Convegno sull’attore a San Marino

23-24 settembre 2005

Il teatro della cattiveria

L’attore è sempre alla ricerca della chiamata dell’Altro. La domanda fondamentale del desiderio è “che cosa vuole l’Altro da me”. Questa domanda formulata attraverso il linguaggio definisce, secondo Jacques Lacan, il desiderio dell’uomo; la formula lacaniana è “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”. Questa formula deriva dalla dialettica hegeliana espressa come lotta per il riconoscimento. Lacan scrive: “ Lo stesso desiderio dell’uomo si costituisce ( egli dice, riferendosi a Hegel) sotto il segno della mediazione, è desiderio di far riconoscere il proprio desiderio”.
Lo psicanalista francese ha mostrato che il soggetto, diviso da se stesso dal linguaggio, si costituisce sul piano immaginario dell’Io, il quale è frutto di una costruzione speculare. L’Io è il risultato di un processo di alienazione, una costruzione fantasmatica che si mostra come maschera. La tragedia di questa tragedia dell’Altro, necessaria per la costruzione del Sé, è che l’Altro non esiste, è un artifizio; scoprire l’inesistenza dell’Altro sprofonda il soggetto nell’angoscia. Il paradosso è che l’Io costruito a immagine e somiglianza di un Altro non si fa mai presente: in “Aspettando Godot” avviene proprio questo.
L’attore è doppiamente maschera: una riguarda il se stesso, attraversato dalla frattura della propria esistenza e alla continua ricerca di un’altra maschera che verrebbe a coprire e illusoriamente a saldare la scissione del soggetto.
L’incertezza di un Altro che non arriva si riduce nell’attore quando viene chiamato dall’Altro, il regista, che occupa il luogo dell’ordinatore del suo spazio e del suo tempo, assegnandogli una parte in un testo che dà al soggetto la parola a dire. E. godottianamente, l’aspirazione massima dell’attore è che lo chiami l’Altro, quel regista, che metterà finalmente in risalto le sue straordinarie qualità, mai apprezzate dagli altri registi: “Mi voleva Strehler” è metafora esemplare di questo anelare.
Il dire del soggetto è un dire di un Altro, l’autore. Il soggetto, quindi, sa che cosa dire e che cosa fare in una scena. E qui si innesca il conflitto che avviene nella dimensione del trialogos, che riguarda un conflitto dell’interpretazione. Ciascuno interpreta il testo secondo i propri criteri che in alcuni casi assurgono alla verità dell’assoluto del discorso delle diverse forme dell’Altro: l’autore, il regista, l’attore, l’organizzatore, il critico, il pubblico. Questa lotta per il riconoscimento, che avviene fra tutte queste figure che sono rappresentanti dell’Altro, in realtà rivela la lotta tra l’effimero e l’eternità, tra l’evento e la storia. E’ così che nel gioco fra l’apparire immagine dell’effimero e sostanza che permane si innesca la lotta per il prestigio, che inoltre rivela la fragilità del gioco.
Il conflitto dell’interpretazione mette in scena un altro testo, quello del desiderio di ciascuno dei protagonisti – autore, attore, regista, organizzatore, critico, pubblico – che non sono i personaggi del testo rappresentato, bensì i protagonisti che permettono che il testo sia rappresentato. Nessuno è pienamente colmo o soddisfatto. Ciascuno si sente come unico e centrale, sentendo di dover superare l’opposizione degli altri. Ciascuno, inteso come quell’Altro di cui ci si aspetta la chiamata, diventa invece nemico.
Un altro livello di conflitto si verifica quando ognuno pretende di occupare il posto dell’Altro. L’attore pensa che lui potrebbe autodirigersi e fare meglio del regista, oppure scrivere un testo che proprio per le sue qualità attorali è adatto alla scena, senza cadere in tranelli letterari. Il regista lotta con la “materia prima” che non si piega al suo genio e sogna la supermarionetta. Il critico si ritiene in grado di scoprire e di denunciare tutte le carenze del testo, della regìa, dell’interpretazione, e le reazioni del pubblico: egli vagheggiando un’altra regìa, un’altra interpretazione, un altro testo che sarebbe in grado di realizzare, se non avesse rinunciato alla creatività sacrificandosi nel ruolo di critico-giudice. Dal canto suo, l’autore si sente tradito da ciascuno degli altri soggetti, e confida che il permanere del suo testo attraverso la scrittura e la stampa lo risarcisca in un futuro che sconfina nell’eternità.
Questo conflitto dell’interpretazione può anche essere letto secondo l’ottica della rivalità mimetica: il desiderio di occupare il posto dell’Altro, perché quell’Altro lo occupa. Ma si tratta di un meccanismo da cui non ci si può liberare, tranne in casi eccezionali: ad esempio quando un attore si scrive il suo testo, lo recita dirigendolo, e viene così ad assommare nella sua persona i diversi ruoli della realizzazione; ci si trova dinanzi a una personalità eccezionale o, più sovente, di fronte a un narcisismo sconfinante nella patologia, anche se, comunque, non può fare a meno di almeno due altri soggetti dell’ambito teatrale, il critico e il pubblico, senza i quali non si può avere teatro.
Chiamando in causa il critico, non ci si vuole riferire ad un soggetto professionalmente definito tale: critico è anche ogni spettatore che abbia coscienza critica. Ma, quanto al critico di professione, talvolta anche lui viene contestato e addirittura rifiutato dall’attore che non accetta il suo giudizio, se ne sente perseguitato e offeso, al punto da impedirgli di entrare in teatro.
Tutto questo meccanismo della rivalità mimetica mette in moto l’arsenale della passioni più accentuate: amore estremo, odio, vendette, invidie distruttive verso l’Altro o verso se stessi, polemiche corrosive, esaltazione del Sé, servilismo, caduta nella depressione, in casi estremi suicidio.
Quanto segnalato riguarda soprattutto l’attore: è lui che si espone con tutta la propria persona, in un tutto unico con la rappresentazione; anche il regista si coinvolge nella rappresentazione, addirittura moltiplicandosi per quanti sono i personaggi e in relazione al complesso che ne deve derivare attraverso tutti gli altri elementi che convergono allo spettacolo; ma quello che egli fa avviene comunque attraverso un’offerta di sé mediata nel corpo degli attori e negli altri apporti materiali necessari all’andata in scena; ciò è palese rilevando che il regista, ultimate le prove, può anche non essere presente alla rappresentazione.
C’è una figura che sembra esente da tutti questi giochi di passioni, di rivalità e di competizione; si ammanta in qualche esemplare di docente. In una olimpica espansione del Sé il Docente tutte queste figure le contiene; in una rasserenata distanziazione che gli proviene dal potere raggiunto, giustificato dagli strumenti della scientificità, egli scruta gli sforzi per la sopravvivenza di coloro in virtù dei quali viene a fruire della sua cattedra. Giocosamente, talvolta il Docente scende in campo, scegliendo una delle figure dell’articolato universo che lui “studia”, e allora si fa autore, si fa regista, si fa perfino attore, e spesso critico, non facendosi mai pubblico, in quanto, per sua stessa compiaciuta dichiarazione, “di rado” va a teatro, trovandosi quasi sempre in disaccordo con gli spettacoli in scena.
Figura di estremo rilievo nel contesto dello spettacolo è quella dell’organizzatore o direttore amministrativo, il quale, nel suo rapporto con l’attore, ma anche con gli altri soggetti che confluiscono nello spettacolo, rappresenta il principio di realtà con cui si scontrano i sogni di grandiosità che talvolta permeano questi protagonisti. Egli, pur avendo compiti di altro tipo, incide copiosamente su ciascuno di loro, perché è attraverso la disponibilità economica organizzativa che mette a disposizione che lo spettacolo assume una determinata forma: l’autore deve contenere il numero dei personaggi scrivendo il suo testo, il regista deve scegliere attori dal costo abbordabile; l’attore deve accontentarsi di costumi, scene, tempi di prova adeguati al budget, e talvolta ricoprire, con paga invariata, più ruoli; anche il critico può esserci o non esserci, può andare con piacere a vedere lo spettacolo oppure scartarlo per difficoltà logistiche: una bella trasferta, una suite, un ufficio stampa messo a disposizione dall’organizzatore, un rimborso spese – tranne che per i pochissimi giornali che ormai si permettono una autonomia economica nell’invio dei loro giornalisti –, tutti questi elementi consentono che venga formulata una recensione – favorevole o contraria che sia – e che essa venga pubblicata in tempi adeguati su di un quotidiano o su di una rivista specializzata.
Va detto che la professione dell’organizzatore, che ha sue prerogative di particolare importanza, può provenire anche dalla cerchia degli attori, talvolta dei registi: ma non si tratta sempre di fallimento, bensì di una raggiunta consapevolezza dell’importanza culturale che la gestione di uno spettacolo rappresenta, portandolo al pubblico a condizioni adeguate al rispetto del livello artistico, e coordinando e suscitando intorno alla rappresentazione quella temperie culturale attraverso cui il teatro non rimane un fenomeno episodico, isolato, alla stregua di un qualsiasi divertimento. Un nome per tutti è quello di Paolo Grassi, direttore di collane teatrali scopritrici di testi sconosciuti nel nostro paese, regista di spettacoli innovativi nell’Italia del dopoguerra: Grassi rinunciò a queste sue prerogative o per dare spazio a Giorgio Strehler, valorizzandone gli spettacoli e facendo conoscere il Piccolo Teatro di Milano in tutto il mondo. Il sacrificio di chi lascia qualcosa di molto amato per far vivere di maggior vita la creatura-teatro prelude a un discorso in cui vengono ad emergere sentimenti che ribaltano in positivo le posizioni di rivalità e contrasto segnalate in precedenza.
E’ necessario uscire da un teatro della cattiveria, sostenuto da alcuni critici come l’unico oggi possibile, e giustificato a oltranza dall’unica rappresentazione delle storture della società attuale con intento di denuncia, negando la possibilità di esprimere le forze positive che permangono nella società stessa, e di farsi propositivo al di là della denuncia, come il teatro, nell’alternanza dei contrasti, si è posto in ogni epoca e civiltà.
L’obbiettivo non riguarda soltanto il testo, ma tutto quell’insieme di figure che intervengono nella realizzazione dello spettacolo e che, come abbiamo descritto, mettono in atto l’arsenale delle passioni e delle rivalità, anche quando venga scelto un testo di alte qualità artistiche.
Il problema della posizione dell’attore non può prescindere da quella della società nel suo complesso. Non pretendiamo di cambiare la società per arrivare a cambiare l’attore, ma possiamo intervenire sul microstrutture: creare cioè piccole organizzazioni in cui si possa impostare un lavoro di formazione dell’uomo prima che dell’attore. Piccole strutture – una sorta di laboratori umani – possono poi riprodursi in diversi contesti. Questo nel teatro è realizzabile, in quanto sussiste un patrimonio culturale e di tradizione che ha la capacità di contribuire a migliorare l’essere umano.
Sono stati tanti gli esempi in tal senso: Jacques Copeau e il suo gruppo, Orazio Costa e le compagnie formate dall’Accademia, Jerzy Grotowski e il suo Teatro Povero, il Living e numerosi altri meno conosciuti, che pur durando, come ogni utopia, un tempo limitato, lasciano un segno che qualcun altro, facendo suo, raccoglie.
La formazione dell’attore, non solo in senso tecnico, ma legata alla sua dimensione di testimone, dovrebbe essere oggetti di massima attenzione, non solo in relazione allo spettacolo, ma come vivo strumento educativo per l’intera società.

Attore sociale e attore teatrale

Secondo una terminologia sociologica si chiama “attore sociale” ogni individuo che vive la propria storia, la subisce, la patisce, reagisce, la porta sul piano del linguaggio, in sintesi: la racconta.
In epoca attuale nell’ambito del teatro, l’attore recita una storia che non è la sua e quindi non ne subisce l’effetto esistenziale; deve viverne la vicenda e al contempo distanziarsene, in una posizione di controllo della sua stessa interpretazione attraverso il mantenimento di una consapevolezza di sé.
Già Diderot, ma più modernamente Max Reinhardt sosteneva che l’attore che si immedesima nella parte fino a dimenticare se stesso, e quindi anche il pubblico, è un dilettante: colui che si consuma nel dolore offre di sé uno spettacolo imbarazzante, una cosa che nulla ha a che vedere con l’arte. La consapevolezza è la naturale difesa dell’attore, che mai sarebbe in grado di sopportare dice Reihnardt: “innumerevoli destini, uno solo dei quali sarebbe sufficiente a distruggere una vita umana”.
Questa consapevolezza di vivere la storia non ce l’ha l’attore sociale, perché non è in grado di distanziarsi, collocarsi in una posizione “meta” e capire quindi l’effetto della propria azione e di quello degli altri, ossia l’intelligibilità di un momento storico che sta vivendo, le connessioni con il passato e quanto accadrà nel futuro.
Nel suo libro “Futuro passato” Reinhart Koselleck differenzia la rappresentazione, l’evento e la struttura; da tale differenziazione Ricoeur propone i tre momenti sviluppati dallo storico Ernest Labrousse che il racconto riesce ad integrare attraverso il lavoro dell’intreccio: “la struttura, la congiuntura e l’avvenimento”, e articola anche i diversi livelli di scala ; inserisce quindi la microstoria nella forma del romanzo individuale e familiare in un contesto più ampio che riguarda la macrostoria. Qui si pone il problema se sia possibile a livello epistemologico comprendere le conseguenze della macrostoria sulla psiche dell’individuo. La differenziazione fra struttura, avvenimento e congiuntura integra anche il sistema con la dimensione storica nella triplice configurazione del passato, del presente e del futuro. In maniera distinta dal romanzo, in cui si racconta in genere qualche cosa avvenuta nel passato, in teatro il presente non è soltanto presente, bensì rappresentazione del passato che si fa presente e che si apre alla dimensione del futuro. Ma il teatro ha anche una analogia con il meccanismo della ripetizione. A differenza della ripetizione, che è un sintomo dell’attore sociale, la ripetizione dell’attore di teatro (ripetizione come replica dello spettacolo) attiene alla dimensione simbolica, non avendo attinenza con la coazione a ripetere riattiva nello spettatore le variazioni immaginative, in questo senso lo stesso spettacolo rappresentato è sempre nuovo e diverso dal precedente. Ciò dà luogo ad una sorta di effetto terapeutico, da intendersi non come medico, ma come capace di indurre nello spettatore l’attività riflessiva e/o sentimenti, attraverso il confronto del proprio mondo con quello recepito dalla rappresentazione.
Koselleck distingue fra spazio di esperienza e orizzonte di attesa; quanto più un individuo a livello personale riesce a impadronirsi e a essere consapevole della propria esperienza, tanto più si allarga questo orizzonte di attesa. Questi concetti che appartengono alla scienza storica possono essere utilizzati nella scala della microstoria dell’individuo o della sua famiglia.
In sintesi, il racconto di finzione e la rappresentazione teatrale sono mezzi che servono soprattutto ad ampliare la conoscenza di sé. Ricoeur mette a confronto il racconto di finzione e il racconto di storie, trovando delle affinità nella costruzione di entrambi; il concetto di intreccio, presente già in Aristotele, è lo strumento privilegiato di questo lavoro. Nella società post-nevrotica si è persa la capacità di raccontarsi; il passato viene “formattato”, perché non si ha tempo per ripercorrerlo e perché non ci sono delle persone che vogliano più ascoltare.

Note:

1
Il contesto dell’incertezza descritto da Zigmund Bauman, la società del rischio di Ulrich Beck, o la società post-moderna, cercano de cogliere l’essenza della nostra epoca globalizzata riassunta nella frase glocal che concentra la dialettica fra la tendenza a chiudersi nel nazionalismo o l’apertura alla globalizzazione, entrambe dimensioni scoprono le paure della perdita dell’identità che è alla base di tante malattie dello spirito di oggi. Utilizzando concetti psicoanalitici ho cercato di descrivere la società post-nevrotica.
La società post-nevrotica, successiva a quella caratterizzata dalla nevrosi descritta da Freud nel conflitto con il padre, è quella che va delineandosi oggi; dopo la società del’ 68, in cui si ipotizzava l’uccisione del padre – senza rendersi conto che con l’uccisione del padre c’era anche quella del figlio –, si è andata configurando un tipo di persona “senza colpe”; in questo senso si è delineato il modello della personalità borderline.

2
Il concetto di tria-logos, a differenza del monologo o del dialogo fra due persone, permette di introdurre la terzeità, l’Altro, la dimensione spirituale, il concetto di umanità.
Nel monologo si rischia la divinizzazione del Sé, il Sé glorioso; in questo spazio del Sé non c’è spazio né per l’altro come tu, né per l’Altro come l’Altro assoluto.
Nello spazio del dialogo si confrontano l’Io e l’altro come tu; se questo spazio diventa chiuso, senza riferimento all’Altro, uno dei poli della relazione diventa dio, idolo, onnipotente, tiranno e l’altro rischia di apparire come schiavo, assoggettato, impotente, succube. In questo luogo ridotto si può innescare la rivalità mimetica, in questa lotta nessuno vuol cedere; il successo dell’altro viene vissuto come una propria sconfitta. Siamo in presenza della dialettica del padrone/schiavo descritta da Hegel.
Nell’ottica del tria-logos il rapporto con l’altro è sempre, quindi, un rapporto triadico: Io (il Sé)-Altro-l’Umanità/o Altri. In un determinato rapporto, quando sono sollecito o violento con un altro, lo sono con tutta l’umanità. Il concetto di tria-logos implica l’etica dell’intersoggettività, il Sé, l’altro e l’umanità sono intimamente interconnessi.

3
La rivalità mimetica: concetto elaborato dall’antropologo cristiano René Girard: si desidera l’oggetto desiderato dal modello o rivale. L’oggetto ha valore perché è desiderato dal rivale. Il meccanismo della rivalità confluisce in una tensione continua a prescindere se realmente quell’oggetto di contesa ha un valore reale o no. L’espandersi della tensione conflittuale rischia di produrre la frammentazione del gruppo o della microsocietà; il gruppo trova una soluzione nel passaggio della logica del tutto contro tutti alla logica del tutti contro uno. La scelta dell’emissario o capro espiatorio compatta il gruppo e lo salva dalla distruzione. La scelta della vittima viene giustificata dalla frase: “E’ meglio che muoia uno solo e non tutta la comunità”.

BIBLIOGRAFIA

Maricla Boggio, “Il corpo creativo la parola e il gesto in Orazio Costa”, Bulzoni editore, 2001;
Camille Demoulié: “Il desiderio”, Einaudi. Torino 2002;
René Girard: “Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”, Adelphi, Milano 2001;
Jurgen Habermas, “Teoria dell’agire comunicativo”, due volumi, Il Mulino, Bologna, 1984
Francisco Mele, “Io diviso/Io riunito. Per una psicoetica dell’operatore sociale”, FrancoAngeli, Milano 2001;

“Le spie dell’incertezza. La famiglia, la scuola e le istituzioni”, Bulzoni, Roma 2004:
Paul Ricoeur: “La memoria, la storia, l’oblio”, Cortina, Milano 2003
“Sé come una altro”, Jaca Book, Milano 1996;

Francisco Mele, in Argentina laurea in psicologia all’Università dei Gesuiti e dottorato in psicologia clinica all’Università di Belgrano a Buenos Aires, docente di Psicologia, ha diretto isituti per minori e ha lavorato in carceri e ospedali psichiatrici.
In Italia dal 1986 al CeIS –centro italiano di solidarietà- come consulente familiare, è docente di Sociologia della famiglia.
Tra i suoi libri, La violenza incarnata 1991, e Voglia di famiglia, 1993, Qualecultura/Jaca Book; Il volto dell’altro –Aids e immaginario, con Maricla Boggio e Luigi Lombardi Satriani, 1995, Meltemi; per le edizioni CeIS, I genitori tossicodipendenti, con M. Malagoli Togliatti, M. G. Cancrini, S. Krull, S. Mazzoni, 1996, La scelta in tempo di Aids, 1997, Parola e Tempo, 2000; Io diviso/Io riunito. Per una psicoetica dell’operatore sociale, 2001, FrancoAngeli; Prefazione al Misantropo di Molière, Besa editore, Nardò (LE) 2002; Le spie dell’incertezza. Famiglia, scuola, istituzioni, la costruzione del Sé allo sbando, Bulzoni 2004.

Considerazioni:

Cosa pensa l’attore quando osserva quelli immagini dei film in cui lui era più giovane e famoso?
Le foto, i film, le locandine, sono la scrittura di una traccia del Sé.
Cosa prova un attore quando è un altro attore, forse il suo rivale, ad interpretare il suo personaggio in una nuova edizione di un texto che lui ha amato?
C’è sempre qualcuno che occupa il posto di un altro o il nostro. Il dilemma di rimanere attaccato ad un personaggio o la lotta per liberarsi dal suo fantasma.

Il soggetto dell’enunciato : il personaggio, le battute all’interno di un testo;
il soggetto dell’enunziazione: l’attore che recita il personaggio, l’autore che parla attraverso il suo personaggio.
Il dramma dell’autore quando non riesce a vedere rappresentato il suo texto e quindi i suoi personaggi.

L’uomo è un altro da quello che dice di essere.

Considerazioni :

Il rapporto fra psicoanalisi e teatro è nato sin dall’origini della disciplina freudiana, Edipo, Amleto, Agammenone, Antigone, costituiscono non solo degli esempli della psicoanalisi applicata, bensì la teoria non può fare a meno dai contributi della tragedia greca alla conoscenza dell’anima umana. Nessuno può dimenticare i contributi di Pirandello, forse senza saperlo, alla psicoanalisi; sostengo che il più importante psicologo italiano sia stato l’autore del fù Mattia Pascal. La differenza fra personaggio e persona viene più volta trattato da Pirandello, in Sei Personaggi in cerca d’autore e in Questa sera si recita a soggetto il velo fra mondo fantastico del teatro e mondo reale si confondono. Essere di quà di là da quella barriera sottile che separa il palcoscenico dal pubblico, è la barriera che separa la realtà reale e la realtà storica secondo la differenziazione che fa André Green o fra realtà reale e realtà psichica secondo Jacques Lacan. Un altro psicoanalista, Maud Mannoni si addentra nell’altra scena, quella del Inconscio. Il teatro come metafora del sogno, o il sogno analizzato come una piccola opera teatrale messa in scena da un regista che sfugge ad essere individuato, l’Altro che mette in scena e apre ogni sera il nostro teatrino interiore. L’Atro organizza un materiale di significanti, rappresentanzioni o immagini, fantasie, piccole storie che durano microsecondi. Ogni personaggio del sogno come quegli del teatro rappresenta qualcosa di noi. Nella scena del sogno è il desiderio del desiderio dell’Altro ad accendere lo spettacolo notturno.
Nel teatro dell’inconscio il soggetto dell’enunciato è diverso dal soggetto dell’enunciazione, ossia il soggetto del testo non corrisponde al soggetto che interpreta il personaggio. Questa distanza fra soggetti crea l’abbisso, la distanza, il timore, il fascino, fra il soggetto di carne e ossa e il personaggio di un testo teatrale. La grande sfida che vive l’attore è rimanere intrappolato nel personaggio, ossia la distanza fra il soggetto dell’enunciato e quello dell’enunciazione scompare, per cui siamo in piena follia nella quale l’attore continua ad interpretare il suo personaggio nella sua vita quotidiana. O la distanza è massima, l’attore rimane attaccato alla propria personalità e quindi, interpreta tutti i personaggi allo stesso modo, ossia, è lui stesso sempre. Il gioco sottile dell’attore è essere se stesso ed essere altro, che implica una rinuncia di sè per poter essere l’altro, ma poi, ci deve essere un ritorno a sé, teoricamente, l’attore dovrebbe ritornare arricchito da questo viaggio nel personaggio, dovrebbe diventare più saggio anche se interpreta un personaggio minore o un malvaggio.
La prima perizia psichiatrica di Lacan è stato il caso Aimé che aveva aggreddita una famosa attrice. Nella storia della paziente, l’attrice rappresentava quella che lei voleva essere. Perché i personaggi famosi scattenano sentimenti ambivalenti, amore estremo o odio, voglia di emulazione ed invidia destruttiva?
Il mio interesse per la criminologia mi aveva avvicinato ai significanti del teatro: il teatro, l’autore o l’attore del crimine non era più soltanto somiglianze di termini. Nella scena del crimine come nella scena del teatro qualcosa accade di inquietante, non si potrà mai più ripetere quel momento, una replica non è mai la ripetizione puntuale di un episodio che è accaduto. Pubblico, attori, testo, si modificano, si trasformano. Lo stesso pubblico non vedrà mai la stessa scena, sempre qualcosa di nuovo avviene, qualcosa che il giorno prima non si era visto o ascoltato. Il testo ci trasforma scrive Paul Ricoeur paraffrassando il Proust della Ricerca del tempo perduto. Il pubblico diventa testimone di un qualcosa che è accaduto, ma nessuno racconto i stessi fatti, sarebbe difficile per un soggetto lontano dall’episodio poter ricostruire l’accaduto soltanto attraverso la testimonianza degli spettatori. Nel crimine perfetto l’autore scompare, non deve essere individuato. Ma, come la criminologia insegna, l’autore vuole essere riconosciuto, e tantissimi e famosi criminali prima o poi vorranno far sapere che sono stati loro a commettere quel crimine che più che un crimine, al suo parere, è un’opera d’arte. Ma se in un testo teatrale, si commettesse un crimine, se in un testo schespeareanio venissero uccissi tutti gli attori insieme ai personaggi, l’arte non è più arte, diventa orrore. La metafora cadrebbe e il teatro non sarebbe più catarsi secondo Aristotele, bensì espressione della nuda violenza criminale che annida nell’animo di tanti essere umani. Nell’arte c’è sempre un tenue confine fra la violenza e la trasformazione della stessa violenza, il logos della non violenza permette che la scena del teatro non si confonda con la scena del criminine.

Le paure dell’attore

Alcune delle paure sono : l’obblio di sé da parte del pubblico, essere cancellato, dimenticato ; non essere più riconosciuto; non essere chiamato; che qualcun altro li rubbi la parte; rimanere intrappolato nel personaggio; vedere che qualcuno lo confonda con l’attore rivale; vedere quando l’attore rivale ha successo nella sua parte; la paura della vecchiaia soprattutto negli attori che avevano puntato tutto sull’immagine di sé.

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