Il modello mimetico nella costruzione dell’identità


 

PER UNA PSICOPOLITICA DELL’IDENTITA

Le gabbie dellidentità

di Francisco Mele

Pubblicato sul libro Dominot,  Raccanto confidenziale di un artista en travesti

Armando editore, Roma, 2016

Il racconto come libro

Il racconto di Dominot è una rivisitazione della sua esperienza di vita. Tale esperienza è abitata dall’alterità: riuscendo a staccarsi dall’immediatezza non è più preda del uso anonimo dell’esistenza.

Nell’esperienza raccontata il soggetto fa un salto dalla nuda vita al registro simbolico.

Non si tratta soltanto di raccontare, bensì di lasciare una traccia di sé attraverso la scrittura. Paul Ricoeur scrive che nel racconto si costruisce quell’aspetto dell’identità da lui definita l’identità narrativa.

Perché Dominot sceglie una scrittrice e non, ad esempio, uno psicoterapeuta? O non decide di raccontarsi da solo? Non va dallo psicoterapeuta perché non ritiene di aver bisogno di cambiare il suo modo di vivere. Non racconta a se stesso perché considera necessaria una mediazione. Sceglie quindi come mediatore una persona che conosce il suo mondo, ma che non entra in competizione con lui e non giudica il suo operato.

Nel racconto avviene un processo in cui il Dominot-uomo lascia spazio al Dominot-donna senza scomparire del tutto. Il dispositivo da lui scelto si presenta come una dinamica circolare di soggettivazione, de-soggetti- vazione e ri-soggettivazione. In questo dispositivo la maschera Dominot- donna copre l’altra maschera, quella dell’Io, evidenziando la tesi lacaniana per cui l’Io è sovrapposizione di immagini. Il fondamento della soggettivi- tà si trova nell’istanza del discorso in cui l’Io designa l’interlocutore che si enuncia come soggetto. Dunque il fondamento della soggettività sta nell’esercizio del linguaggio. Anche per questo motivo Dominot ha bisogno di parlare e cerca quindi un interlocutore per collegare, ricordarsi e accordare i momenti apparentemente staccati della propria esperienza.

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Maurice Blanchot sostiene che la scrittura appartiene alla terza persona: si scrive per non morire. Ma la scrittura non è il libro, può diventare un libro, e for- se è stata questa la ragione per cui Dominot ha chiamato in causa una scrittrice.

Raccontare la storia a un altro significativo, che ha una capacità di ascolto e di trascrizione da permettere a un racconto orale di diventare scrittura, parte dalla convinzione che l’altro – in questo caso Maricla Boggio – abbia il sapere di ordinare e organizzare il proprio vissuto. Jacques Lacan invece dissente dal fatto che esista un altro che abbia la capacità di de-codi care, di costituire il soggetto dell’altro. In questo incontro tra Dominot e la scrittrice capace di portare alla luce il protagonista in scena, tale impossibilità viene superata dalla fiducia che ciascun soggetto pone nell’altro.

Il racconto scritto si distanzia dai protagonisti dell’incontro: in questo caso con Dominot, in altri con diversi soggetti trattati dalla Boggio1, an- che l’autrice scompare per dare spazio a un luogo dell’ascolto che fa parte anch’esso della terza persona. Se lo scrittore occupasse il centro del racconto, l’Io dello scrittore nasconderebbe la profondità del racconto stesso. Ciascuno dei due, in questa storia costruita quasi come un racconto ana- litico attraverso delle sedute, mette in moto un processo in cui transfert e controtransfert sono al servizio di altre gure, anch’esse facenti parte della terza persona, il lettore. Questi incontri permettono a Dominot di realizzare un’analisi senza interpretazioni da parte di un analista. Il lettore, che si presenta nel luogo di una terzietà, non può rimanere indifferente al racconto dominotiano, in quanto esso suscita in lui, immedesimandolo, tutta la gamma dei sentimenti provati dal protagonista.

Anche nel famoso caso Schreber, il presidente lascia il suo materiale psichico nelle sue memorie, che verranno lette e interpretate da Freud.

Il materiale psichico di Dominot, attraverso il racconto, diventa materiale “pubblico” a disposizione di analisti, antropologi, sociologi e filosofi .

Blanchot considera che nel dialogo psicanalitico:

quando parliamo, viene in luce qualcosa che ci illumina su noi stessi at- traverso l’altro. Strano dialogo, tuttavia, reso stranamente ambiguo dalla situazione falsa dei due interlocutori. Ognuno inganna l’altro e si inganna sull’altro. Uno dei due è sempre pronto a credere che la verità del suo caso

1 Fra i casi trattati da Maricla Boggio v. marisa della magliana, Film RAI 1975; la Nara – Una donna dentro la storia, Qualecultura Jacabook, 1991; Natuzza Evolo – il dolore e la parola, insieme a Luigi M. Lombardi Satriani, Armando 2006; Vita di Regina – Regina Bianchi si rac- conta, RAIERI, 2012.

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sia già presente, formata e formulata in colui che ascolta e che, non rivelandola, dà prova semplicemente di cattiva volontà2.

Forse Dominot sperava in una rivelazione formulata dall’interlocutore, “collocato nel luogo del supposto sapere” – come dice Lacan – cioè come una sentenza che tutti noi aspettiamo di ascoltare: “Diventerai te stesso!”. Nel lettore sorge la domanda sull’identità di un travesti che non rinuncia al suo essere uomo. Essere se stesso in Dominot è riconoscere di appartenere a un terzo genere?

Il rapporto sessuale con un travesti, un trans, un prostituto o una pro- stituta è un tipo di rapporto che riguarda il terzo genere. Lo sguardo e la parola acquistano funzioni diverse: l’attrazione o il desiderio di questa sessualità da parte di tanti, apparentemente portati a rapporti soltanto etero- sessuali, porta in sé una specie di sospensione dell’essere o di interruzione dell’essere – concetto sviluppato in Blanchot – utile per comprendere le dinamiche che si verificano nel mondo di Dominot.

Il filosofo Ernst Cassirer afferma che l’uomo non ha mai a che fare con le cose, bensì sempre con se stesso. Secondo una mia considerazione, l’uomo ha a che fare con un sé che è costruito da altri e con altri. Il colloquio con se stesso ha bisogno della mediazione dell’altro. La convinzione dei filosofi – terapeuti dell’antichità era: «Io mi conosco attraverso il racconto che faccio a un altro». In questo senso il colloquio realizzato da Dominot avviene all’in- terno di una struttura mediata che si crea attraverso Maricla Boggio.

Sorge la domanda: chi è il soggetto che parla e chi il soggetto di cui si parla? Maricla Boggio fa emergere i momenti particolari della narrazione in cui appare qualcuno, e questo qualcuno non è soltanto un uno, ma un Uno multiplo, impossibile da ingabbiare in una sola Imago.

La costruzione dell’idolo

Nella struttura perversa si impone la costruzione del feticcio.

Per lo psicanalista Giacomo Contri il feticcio non è un oggetto della donna, è al posto della donna; quindi il feticcio rimane nell’ambito delle perversioni, come i tacchi a spillo, la mutandina, il reggiseno, il piede, il seno, i capelli, le unghie ecc.

L’idolo invece non rimane ancorato nell’ambito delle perversioni: è una costruzione che attraversa le diverse organizzazioni di personalità.

Nell’idolo c’è la consistenza, la pienezza, quindi – come dice Lacan – manca la dimensione della mancanza come motore del desiderio.

Nella storia di Dominot vengono privilegiati non solo lo sguardo, ma anche l’udito. L’immagine che il protagonista cerca di costruire travestendosi, scegliendo ad esempio come modello la Bardot, si coniuga con il canto che ripropone la voce della Piaf, due idoli che avevano avuto il loro massimo splendore negli anni della giovinezza di Dominot.

Il concetto di idolo rimanda all’icona. L’idolo viene inteso come l’incarnazione speculare di un Io ideale, mentre l’icona viene percepita come un’elaborazione dello spirito trascendentale che si riconosce nell’incontro con la divinità.

Il teologo e filosofo Jean-Luc Marion distingue l’idolo dall’icona. L’i- dolo esige di essere guardato, l’icona invece ha uno sguardo che non è lo sguardo annichilente, bensì uno sguardo che nella terminologia di Marion si rivela come dono, si manifesta nella carità e nel gesto del perdono. Lo

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sguardo annichilente del perverso o lo sguardo etico del volto in Lévinas, che sostiene l’ingiunzione “Non uccidere”, si completa con lo sguardo del dono, del registro dell’amore come agape.

Jean-Luc Marion scrive:

«Lo sguardo fa l’idolo, e non l’idolo lo sguardo: il che significa che l’i- dolo colma, con la propria visibilità, l’intenzione dello sguardo, che vuole appunto soltanto questo: vedere. (…) Fermare lo sguardo, non lo si potreb- be dire meglio: fermare lo sguardo, farlo (ri)posarlo in / su un idolo»5.

La differenza fra l’idolo e l’icona passa anche attraverso un processo di distanziazione. Nell’idolo si perde la distanza, il soggetto rimane abbaglia- to e fuso con quell’immagine che attira gli sguardi.

La fusione con l’idolo è fonte e genesi di violenza. Idoli come gli arti- sti, i cantanti, gli sportivi vengono osannati e poi rapidamente accantonati, distrutti, dimenticati. L’esempio più chiaro di questa fusione è stato l’assassino di John Lennon: l’adorazione verso il cantante Beatles ha provocato in lui la fusione al punto tale da credersi John Lennon: quindi ha dovuto eliminare il doppio, l’altro.

In Dominot non c’è soltanto il valore dello sguardo, quella necessità di essere guardato che riporta a una posizione descritta da Freud come il ritorno a un narcisismo secondario, ma c’è anche il valore dell’ascolto, la voce che incanta, seduce e attira l’udito.

Qual è il concetto più adatto per descrivere la passione centrata sull’u- dito? Riguardo all’occhio, gli psicanalisti hanno coniato la definizione “pulsione scopica”. Ci sarebbe una pulsione uditiva? Si può parlare di un godimento attraverso l’udito?

L’udire può portare al pericolo, come è accaduto a Ulisse che, per resistere al canto delle Sirene si è fatto incatenare, mentre ha imposto ai suoi compagni di navigazione di chiudersi le orecchie con la cera per non essere tentati da quei suoni ammaliatori.

Il potere del canto “entra nel soggetto”. è noto il valore del canto con i pazienti psicotici in posizione di catatonia nell’ospedale psichiatrico, che riuscivano a muoversi e a dondolarsi quando ascoltavano canzoni che appartenevano alla loro adolescenza o giovinezza.

La voce si pone in una dimensione che lega e può connettere tanti soggetti. Il filosofo Jacques Derrida sostiene che nessuna coscienza sia possibile

5 Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Milano, Jacabook, 1984, pp. 24-26.

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senza la voce. La voce viene definita come una coscienza perché «parlare a qualcuno, è senz’altro sentirsi parlare, essere sentiti da sé, ma anche e nello stesso tempo, si è sentiti dall’altro, fare che questi ripeta immediata- mente in sé il sentirsi-parlare nella forma stessa in cui io l’ho prodotto»6.

Derrida, in linea con Merleau-Ponty, si riferisce alla carne spirituale quando scrive:

«La parola è un corpo che vuole dire qualcosa solo se un’intenzione attuale lo anima e lo fa passare dallo stato di sonorità inerte (Korper) allo stato di corpo animato (Leib). Questo corpo proprio della parola esprime se è animato dall’atto di un voler-dire, che lo trasforma in carne spirituale7».

«Il sentirsi-parlare – scrive Derrida – non è l’interiorità di uno dentro chiuso su di sé, è l’apertura irriducibile nel dentro, l’occhio e il mondo nella parola. La riduzione fenomenologica è una scena»8.

In ogni mettersi in scena e nel suo racconto, Dominot rompe le sbarre del carcere di vetro del proprio narcisismo e, come lui stesso pronuncia la parola “sprigionare”, sprigiona ovvero esce dalle prigioni per potersi manifestare raccontando se stesso e il suo mondo così ricco di immagini, aneddoti e vissuti.

L’inter-anonimato

Daniela Calabrò, nell’introduzione del libro di Jean-Luc Nancy, scrive:

«Uscire da sé non è uno svelarsi, un rendersi pienamente trasparente, ma è un abbandonarsi all’esistenza, al suo differire dal sé e quindi al rap- porto con l’altro in cui soltanto ci incontriamo o ci tocchiamo senza mai poterci afferrare, racchiudere in un’entità stabile e unitaria»9.

Secondo Blanchot, invece, non esisterebbe nessuna interiorità e, quindi, non uscirebbe nessuno da un luogo collocato in un topos interno. Lo sguardo è un fuori che non si fa interiorizzare rimanendo in una specie di spazio definibile «fuorità». Dominot è stato capace di co-costruire quel ritratto che non è soltanto un ritratto di sé, ma un ritratto degli altri, costruito dal di fuori. Per questo l’imago Dominot-donna fa parte della terza persona.

6 Jacques Derrida, la voce e il fenomeno, Milano, Jacabook, 1997, p. 118.
7 Ivi, p. 120.
8 Ivi, p. 124.
9 Daniela Calabrò, Introduzione in Jean-Luc Nancy, Il corpo dell’arte, Milano, Mimesis-

Imago, 2014, p. 11.

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con il neutro – la terza persona – si contrappone alle due concezioni, il primato del Soggetto inteso nella sua interiorità e il primato di un Altro esterno al Soggetto: una ha visto il primeggiare dell’Io in cui l’Altro viene assorbito dallo Stesso; l’altra, sostenuta dal losofo Emanuel Lévinas, in cui l’Altro è “incarnazione dell’In nito” davanti a cui l’Io do- vrebbe porsi in un rapporto di sudditanza.

In Paul Ricoeur, come in Martin Buber, si privilegia l’uguaglianza, un rapporto di reciprocità. Io e Tu in Buber, o Io e Altro in Ricoeur si alternano a vicenda senza che si perda la condizione di uomo.

Nella prospettiva teorica del terzo genere – il neutro – non esiste nessun rapporto inter-personale; si tratta di due estraneità – l’Io e l’Altro – che si incontrano e si scontrano: questo il pensiero di Blanchot e di Lacan. Nel rapporto di queste due estraneità Blanchot privilegia l’irreciprocità e la diseguaglianza. Egli rompe con la tesi in cui il linguaggio sarebbe il mezzo che riconduce gli opposti a un’unità e quindi ritiene insufficiente la parola come mediazione e risoluzione dei con itti.

In questa tesi il parlare è fonte di con itto, di lotta e di violenza perché il sentimento prevalente nell’uomo è la paura, e la paura è la fonte di tutte le guerre: è un rapporto che io definirei «inter-anonimato».

Truccar(si)e il proprio ritratto

Il ritratto, il sembiante del trucco donna è un ritratto che Dominot porta davanti a sé come uno stendardo che deve attirare gli sguardi degli altri.

Nel libro “L’altro ritratto”, il filosofo Jean-Luc Nancy fa un’analisi del ritratto: il ritrarsi del modello, ovvero la morte del modello fa del ritratto la maschera mortuaria. Il ritratto cattura e imprime un momento particolare del soggetto. L’artista interpreta: vuol dire che è capace di creare qualcosa di nuovo nell’atto di interpretazione di un testo già scritto. Ogni volta che realizza il suo ritratto, Dominot “si ritratta” e ogni volta questo ritratto lo disfa, fa un’operazione circolare. Il ritratto appare come quelle pitture degli artisti di strada che dipingono delle opere d’arte, cancellate nell’arco di poco tempo: esse non sono state fatte per durare per sempre.

In ogni azione del trucco, Dominot disegna un idolo che porta con sé come uno stendardo, cercando di attirare gli sguardi; e ciò avviene anche attraverso i momenti in cui si veste, ad esempio acquistando in un grande

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magazzino degli abiti femminili: entrato da uomo nel camerino ne esce don- na, meravigliando le commesse, ed è a questo gioco che egli tiene, in quel momento: Dominot guarda quello che gli altri guardano che lui ha costruito.

Il truccarsi e lo struccarsi fanno parte dell’agire artistico dal quale ognuno può diventare autore e de-costruttore di un’opera, del proprio ri- tratto o del ritratto di un altro che viene a occultare quello che sta sotto e si vorrebbe far scomparire.

Nancy cita Merleau-Ponty che de nisce il viso come un gioco di ombre, di luci e di colori10.

L’immagine e il ritratto sono intimamente legati. L’immagine cerca l’identità di un albero, di un colore, di un volto. Si tratta della ricerca del più proprio del Sé.

Una poesia di Nancy dice:

Ed è ancora un incontro mancato all’ennesima potenza quello con un volto che non riconosciamo,
perché troppo tardi o troppo presto è arrivato.
(…) si ritrae.

Ma non per nascondersi, non per sottrarsi, ma per mostrarci altre vie…11

Nel ritrarsi, il soggetto lascia una traccia, un tratto, un indice, che tocca allo spettatore ricostruire rifacendo il percorso dell’artista.

Lo storico dell’arte Jean-Louis Schefer dice che il ritratto rimane “in- chiodato al soggetto”. Dominot porta con sé il proprio ritratto. è il suo ritratto, oppure questa creazione del Dominot-donna è il ritratto di un’altra donna? Jacques Lacan parla di Imago primordiale, che in Dominot si riferisce alla madre generatrice e assente.

«Il ritratto è una nzione – sostiene Nancy –, cioè una figurazione, non nel senso di rappresentazione mimetica di una gura, ma nel senso più forte di creazione di una gura, di modellatura ( ngo, ctum), e di messa in scena di una “ gura” nel senso di “personaggio” o di “ruolo” e anche di “emblema”, di “espressione” o di “forma importante che si impone”»12.

La rappresentazione nasconde l’intimità. Si viene a creare una dialettica tra notorietà e intimità. L’intimità deve essere riconosciuta e la notorietà

10 Jean-Luc Nancy l’altro ritratto, Castelvecchi, 2014, Roma, p. 98. 11 Ivi, p. 110.
12 Ivi, p. 36.

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deve mantenere comunque il suo segreto. Nel rendersi visibile qualcosa rimane sempre invisibile.

Nancy descrive tre funzione del ritratto: riproduce il modello originale, in- terpella un altro – lo spettatore – e ha il potere di delega: nel ritratto si mette in scena una rappresentazione in cui il rappresentante dell’altro si nasconde per poter inviare il suo delegato, un surrogato di sé. L’altro si ritira, dice Nancy, mostrandosi. Io ritengo che nel ritirarsi ci sia un attacco: Dominot si introduce e invade lo spazio dell’altro cercando di attirare e catturare il suo sguardo.

Ma in Dominot chi si mostra nascondendosi? Il ritratto ha la capacità di sollecitare il mistero dell’Altro nell’altro; lo spettatore non è mai passivo nell’atto di guardare o di udire. In Dominot si mostra un ritratto erotico, ca- pace di sedurre e portare a inganno, in quanto devia lo sguardo sugli aspetti della nzione mantenendo occulti gli aspetti che tradirebbero il modello originale. La gura Dominot che si presenta è una creazione della quale lo stesso Dominot non è il padrone assoluto; una creazione che sfugge alla sua propria volontà: ogni volta è obbligato a riprodurla per poter essere l’oggetto della nzione che deve essere interpretato e re-interpretato per poter permanere, bloccando il tempo, ssandosi nel tempo. Se invece il ri- tratto è staccato dal soggetto, nel ritratto è il tempo che viene ssato, anche se il soggetto modello originario è morto. Tuttavia il ritratto non somiglia mai all’originale, ma prende qualcosa che va oltre la riproduzione esatta dell’originale.

Il ritratto come opera d’arte nasce per trascendere il presente, andare oltre la vita dello stesso autore. Si scrive per non morire, come già abbiamo riferito dica Blanchot; forse ci si fa un ritratto per rimanere oltre il tempo del modello ritrattato. Il ritratto Dominot-donna non sopravvive al suo au- tore. In coloro che lo hanno visto in quella rappresentazione rimane l’im- magine conosciuta attraverso il ritratto; la voce della Piaf risuona ancora in quelli che l’hanno ascoltata. Di Dominot-donna, Fellini ha saputo ssare un momento nel suo la dolce vita.

Depistare l’altro

Dominot cerca rapporti con gli eterosessuali attraverso il suo essere uomo/donna. Questa ricerca porta in sé la volontà di mettere in crisi l’uo- mo-virile, quel macho violento che aveva abusato di lui quando era un

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bambino. Allora la sua tattica di sopravvivenza diventa una vera strategia di lotta. Si presenta in un modo tale da non poter essere preso nella rete del potere, di quel potere rami cato anche minimo di cui parla Foucault; si muove nella doppia soglia dei passaggi che riguardano i luoghi proibiti e quelli consentiti dalla Legge.

La sua strategia di sopravvivenza è quella della metamorfosi che gli permette di depistare, confondere e disarmare quei maschi che cercano di apparire virili, ma che appena soddisfano il loro “bisogno di scarica” vengono rimandati alla loro impotenza. Dominot traccia un quadro della psicologia dei clienti, che talvolta diventano un branco di cani che inse- guono la preda.

In un processo di de-costruzione Dominot racconta che questi uomini, appena niscono il rapporto sessuale, scappano, si vergognano e molti di loro, quando tornano a casa, per recuperare l’immagine di sé colpita nel proprio narcisismo diventano aggressivi, violenti, portati a picchiare la mo- glie, i gli, la propria madre.

Il travestimento – racconta – libera un po’ questo lato nascosto che c’è in me; questo lato grigio del mio cervello che mi rivela la maniera di essere femminile e di aver con più facilità – è un fatto anche di comodo – rapporti con il mio stesso sesso. (…) Mi diverte, perché c’è un comportamento di- verso delle persone quando trattano con una donna o con un uomo. Delle volte però mi dà fastidio, dico: «Guarda la gente, basta una tonaca per farti sentire un monaco». (…) Io penso che se fossi una donna, vorrei, vedendo come sono, sembrare un uomo. Non credo che mi basterebbe soltanto di essere una donna, vorrei anche essere un uomo.

La de nizione che Dominot dà del travestimento è di tipo relazionale; soltanto in una prospettiva intersoggettiva o interindividuale può essere compresa la sua posizione.

In questa analisi su se stesso, Dominot mette in risalto la teoria del contrasto sviluppata da Georges Bataille, come se l’identità si potesse af- fermare soltanto in opposizione a un altro differente da sé. è per questo che Dominot cerca maschi, non cerca omosessuali; ma davanti ai maschi si presenta come donna. In tale linea viene anche messo in discussione il concetto stesso di omosessualità: il rapporto uomo a uomo duale in realtà diventa triadico; si viene a creare una scena nella quale un uomo – Domi- not – consegna una donna a un altro uomo che si illude di possederla e poi, quando quest’uomo crede di essersi appropriato della donna in un gioco il-

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lusionistico, Dominot gli toglie la donna facendola scomparire; ha bisogno, per questo, di conservare il suo essere uomo che gli serve anche come arma per colpire come maschio qualcuno che lo vuole aggredire.

Nel racconto di Dominot si alternano il mondo del giorno e quello del- la notte. Vi si incontrano dei soggetti apparentemente insigni canti della vita diurna che nella notte si trasformano e acquistano ruoli importanti, diventando determinanti in alcuni luoghi, come la discoteca, il bar, il club ecc. Altri invece, importanti di giorno perché ricoprono ruoli signi cativi nell’ambito della società che conta – manager, sacerdoti, dirigenti -, scen- dono nel sottosuolo dell’esistenza rimanendo affascinati, talvolta sotto- messi come in un gioco masochistico espiatorio, da parte di quelli che si sentono i «famosi della notte». In questi spazi si costruiscono delle storie brevi, secondo un’illusoria uguaglianza dove scompaiono le differenze economiche, culturali e sociali.

La pura nudità

Sotto la maschera che copre anche il corpo di Dominot si nasconde un altro corpo, la pura nudità.

«Nel nudo si mostra, – scrive Daniela Calabrò – di volta in volta, che un soggetto nel senso stretto del sub-jectum non ha nulla sotto di sé, non nasconde più nulla. Il soggetto riposa su se stesso e il ‘sé’ è la sua pelle, lo spessore sottile della pelle e del suo incarnato»13.

Il corpo estraneo in Nancy riguarda il corpo dello straniero. La masche- ra è la contro gura di se stesso. Nancy si domanda: «Dove sono io? Nel corpo, nel piede, negli occhi, nelle mani, nella bocca? Cosa si intende come il corpo estraneo? E che cos’è il corpo proprio?».

In Paul Ricoeur, l’altro ha una triplice dimensione, che è l’altro diverso da me, il mio corpo e la mia coscienza. Il corpo del vivente è avvistato, desidera di essere avvistato. L’aspetto lo costituisce, lo fonda e lo ingabbia. Quando si veste da donna, Dominot viene scambiato per la moglie del gio- vane amante, e ride con una certa ironia e tristezza: “L’abito fa il monaco” .

Se io sono presente al mondo tramite il mio corpo e penso con la mia

13 Daniela Calabrò, nell’introduzione al libro di Jean-Luc Nancy, Il corpo dell’arte, Milano, Mimesis-Imago, 2014, p. 8.

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parola e parlo con la mia bocca14, cosa accade quando chi mi rappresenta è un altro da me?

Chi si presenta quando Dominot appare vestito da donna? Fa vedere un se stesso? Si tratta di una maschera che è il ritratto di un’Imago che a sua volta ha preceduto tutte le altre Imagines che hanno partecipato alla sua costituzione e che lui ogni giorno cerca di riprodurre. Non è possibile “ ssarlo” in un’immagine che riproduce un se stesso o in un’immagine che ritrae l’immagine di altri, che richiama la Bardot, la Piaf o altri perso- naggi da lui messi in scena. Il Sé si mostra in forma alterna. Quando c’è il Dominot-uomo si nasconde il Dominot-donna.

Nancy parla lacanianamente di “estimità” in rapporto a un’intimità che si colloca fuori.

L’imago Dominot-donna fa parte di questa estimità come lo è Dominot- uomo.

In questo circuito tra estimità e intimità si costruisce l’identità che pre- senta una sua vulnerabilità sia quando rimane totalmente in posizione di estimità sia quando è rinchiusa nell’intimità. Si pone quindi la questione relativa a quanto un soggetto è capace di mantenersi in posizione di esti- mità o rimane isolato nella sua intimità: quanto l’altro altera questo movi- mento di ri essi?

“Io sono sempre solo”, dice Dominot. Il rapporto “stabile” con Mario, il compagno con cui a un certo punto ha deciso di condividere la sua esi- stenza, è un rapporto di corpi che si fondono, ma non c’è comunicazione profonda a livello di intimità psicologica o spirituale:

“Ci si sta assieme, per non sentirsi soli, per paura della solitudine”.

Come si può conciliare la solitudine con la fusione tra me e l’altro? Si è soli in due? Dominot muore pochi mesi dopo la morte di Mario15. se fosse stato un se stesso autosuf ciente avrebbe retto alla solitudine. Si è soli in due. Una diade isolata dove è quasi impossibile separare le mo- nadi della propria identità, anche se tra Dominot e Mario sembra esserci una distanza “abissale” tra colui che parla e l’altro che nulla dice nel suo essere silenzioso.

Nel rapporto con l’unico compagno della sua vita, quel punto di sicu- rezza e di ancoraggio che gli permette di stabilire il luogo dove lui sa che può andarsene e tornare, che lo rassicura, è anche un luogo di solitudine.

14 Jean-Luc Nancy, Il corpo dell’arte, Milano, Mimesis-Imago, 2014, p. 37. 15 Dominot è morto il 17 ottobre 2014.

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La rassicurazione avviene nel momento in cui, accanto al suo compagno, può struccarsi, sentire che si è autore e de-costruttore del proprio ritratto senza rimanere e sentirsi svelato, vulnerabile allo sguardo dell’altro. Que- sto rapporto particolare avviene in un clima dove la parola diventa afasica, come se il linguaggio dei corpi senza la carica erotica riempisse il vuoto di un solipsismo assoluto.

Il simbolico che serviva a recuperare l’oggetto perduto per sempre è anche un sistema insuf ciente per evitare la caduta nell’abisso della pro- pria esistenza.

«Il prendersi cura – scrive Heidegger – è già sempre ciò che è sul fon- damento di una intimità con il mondo. In questa intimità l’esserci può per- dersi in ciò che incontra del mondo ed essere assorbito da esso»16.

L’uomo ha bisogno di quello che ho de nito “organizzatore esisten- ziale”, molto vicino al prendersi cura heideggeriano. L’organizzatore esistenziale è quell’oggetto incontrato nel mondo che assorbe per intero l’esserci. Il sesso, la droga, il cibo, il gioco, la cura eccessiva del corpo, diventano l’in-sostanza che impedisce al soggetto di vedere il mondo, è un ostacolo che gli serve per non rendersi conto della propria fragilità. In Dominot l’organizzatore è più d’uno: il “corpo di piacere”, l’alcol, la dipendenza affettiva.

Nancy scrive:

«Piacere come esigenza: appello, incitazione, eccitazione a superare l’utilità e la soddisfazione per andare verso il distacco da sé, l’abbandono, il passaggio al limite-passaggio che non oltrepassa ma che s ora, che tocca e, toccando, si lascia toccare per il fuori»17.

Il corpo di piacere, secondo Nancy, non è orientato verso gli altri, bensì, allo stesso modo del corpo sofferente, è orientato verso se stesso. Il corpo di piacere come il corpo sofferente impedisce di vedere il mondo, occupa tutta la scena dello spazio immaginario e mentale.

Non sempre il piacere è qualcosa di utile per il soggetto e non sempre il dolore rappresenta un aspetto negativo. Ci sono casi estremi oltre il limite in cui piacere e dolore si fondono. Di questo il marchese de Sade aveva scritto. Il piacere passa dalla tensione del disordine alla riorganizzazione o alla ricomposizione del corpo.

Il sesso in Dominot si inserisce nel rapporto in cui non c’è un incontro

16 Giorgio Agamben, l’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza, 2014, pp. 68.
17 Jean Luc Nancy, Il corpo dell’arte, Milano, Edizioni Mimesis, 2014, p. 11.

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faccia a faccia. La passività nel darsi a un altro che si trova in posizione di apparente dominanza e che agisce attivamente costituisce un rapporto omo- sessuale in cui, secondo René Girard, il soggetto innalza l’altro a modello e il modello a posizione di comando e questo occupa il luogo del forte: avver- rebbe una specie di sottomissione di un uomo nei confronti di un altro uomo.

Se pure l’atto sessuale, nel caso di Dominot, prescinda dal faccia a fac- cia, cioè il guardare l’altro negli occhi, questo non signi ca che non ci sia stato un gioco di sguardi precedente che fanno parte del corteggiamento. Secondo questa interpretazione girardiana, nell’atto sessuale che avviene negli incontri sporadici soprattutto nel tempo notturno e in territori deli- mitati, non si può parlare d’amore ma di atti di violenza. Si tratta quindi di una guerra o polemologia del quotidiano, nel quale sesso e violenza si confondono al punto tale che il volto dell’altro scompare per lasciare solo spazio a corpi che si incontrano, si scontrano e si respingono.

L’arte della costruzione del Sé

La costruzione dell’Io presenta tutte le caratteristiche dell’azione di un artigiano. Michel Foucault avrebbe considerato l’arte del trucco di Domi- not come una vera arte.

Il losofo Pierre Hadot considera il lavoro teorico di Foucault come un percorso di ricerca di un’estetica che serve a modellare la propria vita in funzione di quell’ideale che va oltre il bene e il male.

Foucault va alla ricerca di un se stesso e dell’altro da sé; si propone di analizzare i processi di trasformazione del soggetto; la vita di ciascun indi- viduo dovrebbe essere considerata come un’opera d’arte.

Lo sforzo di Dominot, di costruirsi il suo proprio personaggio e di incarnarlo no al punto in cui risulta quasi impossibile distanziare un se stesso e un altro da se stesso, è un atto di creazione. Il fatto di dire che lui ha costruito il suo personaggio non signi ca che si tratti di una nzione, ma il personaggio e la sua vita sono tutt’uno. Questa vita deve essere letta secondo il metodo della fenomenologia, l’epoché che prende in conside- razione una persona senza isolarla dal contesto, senza togliere gli impulsi vitali come potrebbe rischiare di fare una psicopatologia che la vorrebbe incasellare in una struttura perversa, di personalità scissa, con componenti isterici, ossessivi ecc.

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Dominot ci presenta la sua esperienza di vita. Michel Foucault si sarebbe appassionato a lui perché egli sostiene che l’“esperienza” non è che la razio- nalizzazione di un processo esso stesso provvisorio, che produce alla ne un soggetto o più soggetti: in sintesi, processi di soggettivazione. Nello stesso momento in cui si vuole afferrare il soggetto, congelarlo in una descrizione, lo si fa diventare cadavere perché, come dice Lévinas, il volto non può es- sere tematizzato. In Dominot volto e maschera si alternano impedendo allo scienziato di oggettivarlo. Dominot non solo parla di sé, ma ricostruisce il suo mondo o i mondi che, come abitante del limite, è riuscito ad attraversare.

L’arte di Dominot appare nel suo travestimento, nel trasformarsi che lo affascina. Questa metaformosi ovidiana che lui gestisce a volontà e secon- do le circostanze, per lui è un’arte. I travestiti – afferma – sono dei geni, anche i più meschini.

La logica del desiderio

Lacan differenzia bisogno, desiderio, soggetto, oggetto, fantasma. Il biso- gno si soddisfa con un oggetto particolare, di cui il soggetto a volte non può fare a meno, come soddisfare la sete o la fame. Nell’uomo predomina il desi- derio che è sempre desiderio di altro e che non viene mai appagato de nitiva- mente. Il soggetto è de nito come desiderio perché è un soggetto desideran- te, instabile e aperto al desiderio dell’altro. Lacan sostiene che l’oggetto è un fallito perché si presenta o viene investito come l’oggetto che dovrebbe sod- disfare il bisogno del soggetto. Ma l’oggetto può essere facilmente distrutto o gettato. Quello che resiste è il fantasma che si coagula intorno all’oggetto del desiderio: tale oggetto, è quello che ho de nito l’organizzatore esistenziale.

«Io sono dove non mi penso e penso dove non sono» è una celebre frase di Jacques Lacan. Parafrasando tale frase, Dominot sembra dire: «Io sono dove tu mi vuoi e tu sei dove io non voglio essere, né etero, né omo». Fra Dominot e il cliente si stabilisce un rapporto quasi senza volto; per questo tra chi si offre e il cliente non si instaura un rapporto d’amore, ma viene attuato un rapporto segnato dalla violenza.

Nella costruzione del soggetto, Lacan individua la fase dello specchio, il primo momento della costruzione dell’identità. Il bambino si riconosce in quell’immagine originaria che a modo di modellino architettonico viene a occupare la tensione del soggetto per essere.

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Lo scarto che esiste tra l’Imago originaria e il soggetto instaura la scis- sione originaria dell’identità.

Questa Imago ri essa nello specchio è legata al volto della madre ideale che guarda gioiosa nello specchio e dà unità all’immagine precedentemen- te frammentata.

L’origine dell’identità si sostiene sullo sguardo dell’altro. Costruita questa Imago, si sovrappongono poi tutte le altre immagini che andranno a comporre l’Io ideale.

Un secondo momento fondamentale è rappresentato dal passaggio del soggetto attraverso il complesso di Edipo, in cui il soggetto si deve scon- trare con la presenza della Legge incarnata nella gura e nella funzione del padre simbolico. Il passaggio attraverso il complesso di Edipo inaugura la costruzione degli ideali dell’Io, mettendo in azione il desiderio che si presenta in una prima formulazione come il desiderio dell’altro, per poi approdare a quello che manca a essere.

In Dominot manca il passaggio, attraverso il complesso di Edipo, alla fase di scontro con la Legge rappresentata dal padre simbolico, che nella sua vita non appare nella sua funzione paterna.

Nella costruzione del suo ritratto Dominot riproduce in senso mimetico il proprio di quel volto della madre ideale che non coincide con la madre biologica. La costruzione Dominot-donna è quindi la rappresentazione di un’Ima- go scomparsa per sempre: ogni volta Dominot nel sue travestirsi la richia- ma in causa, e ogni volta nel suo struccarsi fa sì che l’Imago torni a quel

mondo immaginario.
Il signi cante Dominot permette di realizzare alcune associazioni. In esse

troviamo l’ambivalenza: il dominare e il desiderio di essere posseduto, come se appartenesse alle due categorie di uomini descritti dal marchese de Sade:

Guarda le opere della natura e considera tu stesso l’estrema differenza che la sua mano ha posto nella formazione degli uomini nati nella prima classe (i padroni) e quelli nati nella seconda (i servi). Hanno forse la stessa voce, la stessa pelle, le stesse membra, la stessa andatura, gli stessi gusti e – oserei dire – gli stessi bisogni? è vano obiettare che a stabilire queste differenze sono stati il lusso e l’educazione e che, nello stato di natura, gli uni e gli altri sono assolutamente simili fin dall’infanzia. Io lo nego, ed è sia per averlo notato io stesso che per averlo fatto osservare da abili anatomisti che affermo che non vi è alcuna somiglianza nella conformazione degli uni e degli altri…18

18 Giorgio Agamben l’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza, 2014, p. 29. 222

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La strategia dominotiana è di provocare la dialettica, dominare ed esse- re dominato, sottrarsi al gioco dell’assoggettare/assoggettato.

La tattica di Dominot è quella di dare in pasto la “donna” che lo rappre- senta agli sguardi libidinosi di coloro che rimangono affascinati da lui/lei. Dietro il ritratto Dominot-donna si nasconde il Dominot-uomo che gode nel guardare la scena nella quale gli altri guardano e desiderano Dominot- donna. Quindi si viene a creare una relazione triadica in cui circola il desi- derio che si manifesta con le sue insidie e trappole.

Attraverso questo marchingegno Dominot-uomo sembra essere preser- vato dall’angoscia di castrazione, angoscia sviluppata da Freud nella sua elaborazione del complesso di Edipo. Inoltre Dominot-uomo si sottrae alla rivalità mimetica con gli altri uomini. Per questo Dominot può raccontare la sua storia con un senso di leggerezza utilizzando un genere letterario favolistico, come se raccontasse la storia di un altro da sé. Infatti più di una volta ripete “Mi fa ridere”: può ridere delle situazioni drammatiche in quanto è distaccato da sé, si sente autore, protagonista e spettatore della propria storia.

Dominot è un soggetto plurale che si muove attraversando territori e spazi portando con sé il guardaroba che gli permette il suo travestimento, essendo capace di creare lo spazio scenico e pertanto di mettersi in scena quando si vengono a creare le circostanze necessarie.

Dominot è capace di passare dall’Io della prima persona al Lui della terza. Attraverso questo movimento riesce a depistare l’Altro.

Attraverso una rappresentazione, Dominot-donna indossa panni di un altro che è un se stesso. Nancy sostiene che la “stessità” è un’alterità.

Il farsi avanti nella veste di Dominot-donna, per Dominot è un farsi avanti per sfuggire. Chi sta davanti permette alla retroguardia di scappare. La nzione in scena mette in atto un agire manipolativo che ha per effetto l’inganno. Per questo più di uno dei maschi clienti di Dominot-donna cer- cavano l’Altro, volevano vederlo nudo e Dominot ri uta di farsi vedere nudo perché tutto il marchingegno da lui creato verrebbe smontato.

Nella teoria lacaniana dello specchio, il soggetto guarda e vuole iden- ti carsi con la sua immagine ideale ri essa, ma in realtà c’è sempre quel margine che impedisce di far coincidere Imago e Soggetto. il soggetto di- venta assoggettato a un Altro assoggettante. Il travestito si muove in questo spazio speculare dove le coincidenze si rincorrono nel gioco metonimico alla base del desiderio. Nella dialettica del riconoscimento, il bambino si

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riconosce in quell’immagine ri essa allo specchio in presenza della madre che lo guarda. Dominot è rimasto affascinato da quel gioco e ogni volta mette in scena quella triade costituita da tre spazi virtuali, l’imago ri essa nello specchio, il volto della madre ideale e l’altro da sé incantato o che incanta. Dominot non cessa di ripetere: «quello là si era innamorato di me”, si è innamorato della sua immagine di donna. Il gioco speculare non può essere smontato. Si tratta del dispositivo dell’immaginario che ha tutto il potere di catturare i desideri altrui.

“Io sono lo specchio”

Ribaltando la teoria dello specchio di Lacan, Dominot si de nisce come “Io sono lo specchio”. In questo specchio si ri ettono le passioni, le miserie, gli egoismi di quegli esseri che Dominot cerca, ammira e spesso disprezza.

Si può affermare che il simbolico costituisce lo strumento più adatto a rielaborare la perdita, soprattutto di quell’oggetto, perso per sempre, che in Dominot ritorna nel suo racconto come un’immagine della madre ideale, bellissima donna di cui lui cerca di ricostruire il sembiante.

«Il simbolico è il perno che fa ruotare la perdita, – sostiene la psica- nalista C. Ternynck – che la fa uscire dai cardini, la smonta per offrirle una contropartita. Quello a cui rinunciamo, infatti, lo ritroviamo a un altro livello, in un altro modo. Non nell’oggetto perduto, ma nel tragitto che abbiamo dovuto compiere per accettare di perderlo»19.

Lacan differenzia il sinthomo dal sintomo. Nel sinthomo il corpo «si gode nella ripetizione – scrive lo psicanalista Antonio Di Ciaccia –, la quale non comporta sofferenza per la persona, che al contrario ci trova spunto di creazione e di reinvenzione»20. Invece nel sintomo il soggetto patisce in un processo che lo porta all’incontro tra il godimento e la pulsione di morte.

Il godimento, quando si sottopone alla legge del signi cante, diventa desiderio, e quindi si fa linguaggio, si rappresenta come metafora, ma an- che il desiderio rimanda al gioco metonimico, quell’oggetto trovato non sarà mai all’altezza di quello che il desiderio desidera.

19 Silvano Petrosino, citazione di C. Ternynck, l’idolo, Milano, Mimesis/Altro Discorso, 2015, p. 73.

20 Antonio Di Ciaccia, Il godimento in lacan, La psicoanalisi, studi internazionali di campo freudiano, Bologna, 2013. Sito: vedere “Godimento in Lacan.webarchive”.

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Alla base della struttura perversa propria dell’imperativo del godimen- to, avviene una rottura a livello del registro del simbolico e quindi si impo- ne la tensione che si manifesta in forma dell’urgenza, per cui il bisogno non può essere rimandato. Nella struttura perversa il fantasma si impossessa della scena provocando la rei cazione dei corpi e dei soggetti. La scena perversa non è priva di regole, ma queste regole non vengono imposte da una struttura terza, come può essere la Legge, bensì dalla pulsione di morte.

Il travestimento fa parte del gioco in cui il registro dell’immaginario e quello del simbolico si alternano. Ogni “vestizione” in Dominot è una sostituzione che rimanda a un’altra vestizione che viene ancora sostituita in una specie di catena all’in nito.

Il passaggio fra l’immaginario e il simbolico coincide nella teoria laca- niana con il passaggio del concetto di fallo legato nel pensiero psicanalitico al concetto di pene. Il fallo non è più un oggetto – il pene –, ma diventa un signi cante.

Nel travestito il passaggio è ancora più evidente in quanto il soggetto disattiva il pene esaltando il signi cante fallo che ritorna dall’esterno di nuovo riattivato nella sua carnalità. Operazione che deve essere nascosta; nessuno deve guardare cosa c’è dietro le vesti che coprono la nudità del corpo reale. Del reale non ci è dato sapere niente; i signi canti come i ve- stiti costituiscono il velo e l’ostacolo dell’accesso al reale.

Il travestito attua come un ponte tra l’immaginario luogo dell’uomo e l’altra riva, come il luogo dove la donna si pensa totalmente donna.

Il travestito pone due domande all’altro: “Che vuoi?”, e poi “Chi sono?”. Domande senza risposte che accompagnano il soggetto no alla sua morte.

Dominot viene attratto dalla bellezza altrui, che lo cattura.

Il bello ha una funzione di barriera, come nella poesia di Rilke in cui il bello è l’ultimo ostacolo che impedisce di guardare il tremendo. Inoltre il bello impedisce che il godente si schianti contro il “Das Ding”, la “Cosa”, per cui si produrrebbe lo spegnimento del desiderio. Nella follia della notte in cui si incontrano i godenti i loro corpi si toccano, si scontrano e si respin- gono; nella follia della notte, in quei luoghi dell’inter-anonimato come una volta accadeva nel parco delle Terme di Caracalla o nel mitico Monteca- prino di Roma, avveniva il raduno dei godenti in cui si percepivano i lampi degli incontri e, quindi, si assisteva alla morte del desiderio.

Di quale desiderio si tratta in Dominot? Vive in competizione con gli uomini, con le donne, con i travestiti?

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Il godimento – dice Lacan in uno dei suoi seminari – non ha come obbiettivo di raggiungere nessun altro. In sintesi, non c’è nessun Altro. Il godimento diventa godimento dell’Uno senza l’Altro.

Da questi seminari lacaniani si deduce che Lacan ritenga che non ci sia rapporto sessuale; tutto verrebbe consumato nel se stesso, in un incontro di tipo quasi autistico è solo il corpo a godere.

Nel mondo di Dominot sicuramente in quei momenti dove lui “batte” – o “com-batte” – le sue battaglie, gli altri sono dei corpi senza volto; non esistono interlocutori.

Il valore della psicanalisi sta nell’aprire uno spazio in cui il soggetto può parlare a qualcuno. Quando scompare l’interlocutore, il corpo occupa il primo posto ostacolando la visione e interrompendo il rapporto con il mondo, rimanendo chiuso nel mondo dell’inter-anonimato.

Il godimento autistico mette in discussione i concetti di sublimazione e di trasgressione.

Nel godimento non ci sarebbe la trasgressione in quanto la Legge disat- tivata non riesce a tracciare nessun limite. Per questo il corpo gode senza trasgredire e si mostra come in un’innocente seconda infanzia ritrovata.

In un linguaggio teatrale i ruoli si alternano tra protagonista e comparsa, e altri entrano a far parte della comparsa quando Dominot prende possesso della propria scena o poi anche lui diventa comparsa del godimento solita- rio di altri corpi.

è per questo che il racconto viene presentato con naturalezza, con un sorriso. La parola nasconde in realtà il dramma della violenza che c’è alla base dei tanti momenti vissuti da Dominot.

L’inconscio nella teoria lacaniana si potrebbe leggere nella gura dell’ano o della bocca. Ano e bocca sono nestre dell’inconscio.

Analizzare il binario lacaniano “buco/phallos” è considerare la dialet- tica vuoto/pieno.

Il buco lacaniano rappresenta il soggetto scisso.

Dominot sembra voler presentare la frattura del soggetto e le unità del soggetto, cercando di cancellare le differenze, mantenendo attivi i fantasmi che si interpongono tra l’imago maschio e l’imago femmina. è il fantasma e non l’oggetto il sostegno del desiderio.

La maschera Dominot-donna incarna il fantasma come enigma dell’esisten- za, diventando una specie di sorriso che ci rimanda al sorriso della Gioconda, dove Freud aveva fatto emergere uno dei segni della bisessualità di Leonardo.

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Fuori dal tempo

Nella storia di Dominot manca il padre, ovvero la funzione paterna, per- ché quel padre, non si sa se biologico o adottivo, non lo riconosce perché non accetta la sua omosessualità; è un soggetto incapace di proteggerlo, come si deduce quando Dominot racconta di essere stato tante volte abusato per no da parenti e amici di famiglia. La scelta del nome Dominot da parte di lui ragazzo, infatuato di una ragazza – Dominique – a capo di una banda di ra- gazzini, cancella non solo il suo nome di battesimo ma fa a meno anche del cognome. In tal modo il protagonista esce da una linea genealogica e da una linea di trasmissione di una eredità biologica e materiale. Tale scelta lo colloca in un contesto mitologico e fa sì che la sua nascita si presenti come la nascita dell’eroe che non è mai “naturale”, come la nascita degli altri esseri umani. Dominot critica la cultura perché la dimensione simbolica produce una rottura con quella nuda vita. La necessità di ritornare periodicamente alla sua Tunisia:

«è cosi mi rituffo in questa infanzia. (…) mi piace trovare l’odore, il sapore, il colore, l’alba, il crepuscolo».

Questo ritorno alla sua infanzia costituisce il momento in cui Dominot ritrova, attraverso certi rituali che mette in atto, il momento kariologico, fuori del tempo cronologico. Il rapporto di Dominot con il mondo è fuori dal tempo e dallo spazio. Attraverso il truccarsi, il suo travestimento ferma il tempo. Al punto che racconta:

«Io poi me ne andavo in giro con un amico sui trent’anni. Quando an- davamo vestiti tutti e due da uomo, mi prendevano per il padre; quando io mi vestivo da donna, pensavano che io fossi sua moglie».

Dominot possiede una sorta di principio etico che modi ca secondo le situazioni in cui si trova. Può avere rapporti con uomini sposati, triangoli affettivi, persone anziane o giovanissimi senza che venga a crearsi dentro di lui un con itto morale. Reagisce con estrema violenza di fronte a chi si comporta in modo secondo lui immorale rispetto a un partner – come accade per David Sailer, che si sposa per convenienza –; ma si permette di partire per le sue evasioni sessuali in Tunisia quando ormai è legato da anni a un affetto totale, pur sapendo che questo comportamento fa soffrire il suo compagno.

Dominot attraversa le situazioni più disparate nel corso degli anni con una sorta di leggerezza e di apparente ingenuità, come se niente lo scal- sse. Tutto diventa poesia, sogno, anche se lui è consapevole che dietro questa costruzione della realtà, si nasconde la crudeltà.

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I passaggi dei contesti da parte di Dominot fanno presagire l’avvento di una società senza con ni, de nita da Zygmunt Bauman “la società li- quida” che in un senso positivo avrebbe dovuto portare alla realizzazione dei principi di uguaglianza e fraternità. Il concetto di società liquida ha più caratteristiche negative, perché riguarda la circolazione del capitale senza controlli da parte dello Stato. In realtà più che società liquida si è imposta una società ancora più “solidi cata” ed escludente di quella vissuta da Do- minot, dove le classi sociali erano chiaramente differenziate e non bastava l’incontro di corpi per cancellare le differenze culturali ed economiche. La storia di Dominot con David ne è un esempio: l’amore è stato bloccato dalla famiglia del giovane che sarebbe stato diseredato se non avesse ab- bandonato quel partner scomodo.

Il desiderio di essere l’altro

Nel suo studio sul volto, Lévinas sostiene: «Si trova una povertà es- senziale, provata dal fatto che si cerca di mascherarla assumendo delle pose e dandosi un contegno. Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza e allo stesso tempo il volto è ciò che ci vieta di uccidere»21.

Lévinas differenzia l’azione di percepire il volto di altri – che vuol dire che c’è una differenza fra la percezione di una faccia, di un naso, delle orecchie o degli occhi – e la percezione del volto, della presenza più inti- ma dell’altro. Il rapporto con il volto di altri è possibile attraverso un tipo di relazione che mette in primo piano l’etica considerata dai loso greci come la loso a prima.

Quando l’atto erotico diventa azione violenta sottomessa a un vortice quasi distruttivo, l’etica viene sorpassata dalla voglia, dalla volontà di pos- sedere o di essere posseduto al punto tale da rimanere inchiodati nell’im- manenza.

Nell’elaborazione del suo concetto di “rivalità mimetica”, René Girard differenzia il modello e l’oggetto. Il modello – l’altro – desidera un oggetto, il soggetto che guarda la scena viene spinto a volere quell’oggetto in un primo momento e in un secondo tempo il soggetto vuole occupare il posto

21 Emanuel Lévinas, Etica e infinito, Roma, Castelvecchi, 2012, p, 87. 228

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del modello stesso. Questo è l’inizio della crisi mimetica che porta poi, se non ci sono delle dighe di contenimento, alla violenza all’estremo. Questo è il passaggio che dà inizio al processo di ominizzazione. L’uomo lascia la dimensione animale senza abbandonarla del tutto ed entra nella dimensione umana attraverso un con itto originario. Le istituzioni nascono per contene- re la violenza originaria che minaccia ogni volta la convivenza all’interno di un gruppo o il rapporto intergruppale. La cultura ha creato un marchingegno per incanalare la violenza verso un soggetto, un oggetto o un animale, che viene a occupare il luogo del capro espiatorio. In alcune situazioni, soprat- tutto quando era un bambino, Dominot ha dovuto ricoprire questo luogo.

Nell’ambito del mondo animale, Girard ricorda gli studi degli etologi che hanno studiato il comportamento delle scimmie dove si evince che «quando un maschio si riconosce battuto da un rivale e rinuncia alla fem- mina che quello gli contendeva, si mette, di fronte al vincitore in posizione, ci dicono, di “offerta omosessuale”»22.

Scrive Girard:

«L’appetito istintuale alimentare o sessuale si stacca dall’oggetto che gli uomini si contendono per ssarsi su colui o coloro che se lo contendo- no. è sempre la stessa tendenza del desiderio a deviare verso il desiderio mimetico».

Lo psichiatra Jean-Michel Oughourlian, dialogando con Girard a pro- posito di un suo paziente omosessuale, dice: «L’omosessuale, mi creda, vuole essere quello che è l’altro»23.

Dominot, nel gioco del travestimento, pone altri interrogativi, perché attraverso il suo travestimento sembrerebbe eliminare la rivalità mimetica che si veri ca di solito fra persone dello stesso sesso. Questo inganno ap- parentemente supera il livello di tensione fra modello e soggetto in quanto è lui stesso a offrire al modello l’oggetto di contesa. Sono gli altri uomini che litigano fra loro per avere Dominot-donna dietro il cui sembiante Do- minot dice: “è da ridere”.

Nel rapporto sado-masochista viene messo in scena, nel senso di Sa- cher-Masoch, la rappresentazione dell’erotismo al limite, ovvero lo scate- narsi della violenza che porta il godimento all’estremo.

«Per raggiungere il piacere – scrive Girard –, il soggetto ha bisogno di riprodurre un’intera struttura del suo desiderio, così come la legge.

22 René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 1983, p. 408. 23 Ivi, p. 409.

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Non può fare a meno della violenza reale o presunta del rivale perché fa parte integrante di tale struttura»24.

Questi rapporti di violenza e di persecuzione sono alla base del soggetto che si pone in posizione di inferiorità nei confronti del suo modello mi- metico. Più soffre il masochista, più gode perché il suo modello mimetico è sempre più forte e presenta un segreto, quel segreto che può far fallire, ridurre a niente, rivelare la sua vacuità al soggetto masochista.

Il fallimento del masochista costituisce il trionfo del soggetto in posi- zione di dominio, ma chi dà il potere al forte, al sadico se non una struttu- ra scenica con un regista che distribuisce i ruoli? Di nuovo Dominot qui pone un interrogativo alla dialettica sado-masochista in quanto il rapporto è sempre triadico: facilmente quindi i ruoli vengono intercambiati.

Nello schema dominotiano il protagonista dietro la maschera vede come il modello – che è il cliente maschio – possiede con forza e violenza il suo doppio femminile. Ma quando il presunto modello forte, virile si traveste mettendosi i tacchi a spillo chiedendogli di possederlo vestito in quel modo, il modello dominotiano viene messo in crisi. Il rapporto triadico – Dominot-uomo, Dominot-donna e cliente maschio – deve la- sciare spazio a una quarta presenza perché l’altro anche lui è un doppio: si innesca quindi un processo di violenza speculare che in altri casi ha provocato in Dominot una reazione di ri uto e di respingimento. Domi- not ri uta di passare a occupare la posizione di attivo, nei confronti di un altro che gli si offre.

I racconti di Dominot circa i suoi rapporti con persone eccellenti, intel- lettuali, rappresentanti del potere sembrano avvolti da una patina onirica, come se nel sogno i padroni facessero uso di lui di loro volontà. Il rapporto con il giovane arabo di classe altolocata nel giorno del suo matrimonio e il gioco erotico dello Scià con la danzata di Dominot sono esempi della dialettica schiavo/padrone de nita da Hegel.

Mediante un’analisi linguistica del sogno, Freud e poi Lacan avevano individuato i meccanismi metaforici, metonimici e simbolici che costrui- scono la produzione onirica rendendola talvolta incomprensibile o assurda, oppure sembrando molto chiara mentre in realtà nasconde l’inconfessabile gioco del desiderio.

Cosa prova Dominot nel vedere lo Scià toccare e godere di Maddalena,

24 Ivi, p. 404.

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l’unica donna con cui abbia avuto rapporti sessuali nel corso della sua vita? Se leggiamo questo episodio come sogno, chi è lo Scià, chi la donna e chi Dominot? Dominot gode vedendo il potente godere? In quel caso lui è anche il potente o il modello, come abbiamo visto in René Girard? Madda- lena, nel suo racconto, è anche Dominot che si confonde con quell’imago idealizzata che riporta all’antica imago originaria.

Nel suo racconto, Dominot sollecita gli sguardi degli altri su di sé, rive- lando in questo modo la sua struttura narcisistica apparentemente forte e al tempo stesso vulnerabile.

Girard ssembra parlare di Dominot quando scrive:

Vedendo che tutto, attorno a lui, è immagine, imitazione e ammirazione (imago e imitare appartengono alla stessa radice), desidera ardentemente l’ammirazione altrui, ossia la polarizzazione su di sé di tutti i desideri mi- metici e vive l’incertezza inevitabile – il carattere mimetico del risultato – con una intensità tragica. Il minimo segno di accettazione o di ripulsa, di stima o di disprezzo, lo getta nella notte della disperazione o in estasi sovrumane25.

La stessa dinamica, secondo Girard, si veri ca tra gli artisti che vivono in competizione: tutto quello che «mi incoraggia scoraggia i miei concor- renti, tutto ciò che li scoraggia mi incoraggia». Niente è stabile e tutto è in movimento; si genera una continua situazione di incertezza, e quindi si incrementa l’aggressività dell’uno contro gli altri, la s ducia. Gli artisti vivono in prima persona questa altalena dell’incertezza e dell’instabilità, la necessità dell’applauso per sentirsi al centro dell’attenzione e l’angoscia straziante dell’insuccesso che li porta a stati depressivi acuti. In sintesi, chi presenta uno stato maniaco-depressivo o vive una situazione bipolare, è posseduto da un’ambizione sfrenata.

Dominot appare immune da queste altalene. Tuttavia, quando si è sen- tito ri utato per aver trovato il suo amante – Mario – fra le braccia di una donna, questa scoperta lo scaraventa in uno stato confusionale, di crisi vio- lenta al punto da rischiare la vita mettendo in atto meccanismi autolesivi il cui signi cato è quello di colpire il modello-rivale-amante.

25 Ivi, p. 378-9.

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L’abitante del limite

Blanchot de nisce “uomo tragico” chi vive agli estremi e non abita il giusto medio. L’uomo che vive agli estremi è l’abitante del limite o colui che vive nel movimento. Si tratta del nomade. La gura dell’ebreo che vive nell’esilio e va alla ricerca del Regno è sempre pronta a mettersi in cam- mino, a uscire da sé per andare fuori. Dominot presenta alcune di queste caratteristiche. è un italiano, è uno straniero, è un nomade alla ricerca della sua tenda. Ogni tanto dice che deve tornare alla sua Tunisi. Non rimane inchiodato a nessun territorio. è una donna, è un uomo? è un uomo/donna? Si può parlare di lui come appartenente al terzo genere, a un impersonale? Quando racconta la sua storia, lo fa da una posizione terza. è uno che vive fuori e osserva gli eventi in cui un altro da lui ha vissuto la sua storia.

L’atto di truccare visto secondo un’angolazione artistica costituisce il passaggio dalla natura alla cultura. Il proprio volto viene coperto da imma- gini che cercano di catturare l’altro, di spaventarlo o di frastornarlo. Il truc- co è una scrittura, un segno particolare che non diventa universale. Il viso truccato non può mai essere indossato da un altro, anche se l’altro potrebbe copiarlo. Nella funzione dello struccarsi, l’uomo è capace di cancellare le sue tracce. Lacan dice che la differenza fra uomo e animale consiste nel fatto che l’uomo può cancellare la propria traccia. Il trucco non è un tatuag- gio, non cancella e non deforma il viso. Il trucco si appoggia sulla nudità del volto e, come sosteneva Lévinas, nella sua nudità il volto è vulnerabile, quindi il trucco viene a proteggerne la vulnerabilità.

Una lettura psico-politica

Il travestimento per Dominot costituisce una strategia per affrontare la violenza del vivere quotidiano. è la sua droga, intesa come tecnica di sopravvivenza in un contesto pieno di insidie e di violenze. La sua droga non è la cocaina o l’eroina, bensì l’alcol. E ogni droga corrisponde a una tipologia di giochi.

Secondo Roger Caillois ci sono quattro tipi di giochi: quello di imita- zione, che riguarda i mimi, gli attori, l’uso delle maschere, ovvero quello che accade in teatro; i giochi di competizione o di lotta, come la corsa, la boxe, il calcio, il tennis; terzo tipo, i giochi di vertigine, che consistono nel

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girare rapidamente su se stessi: corrispondono, secondo Girard, al paros- sismo allucinatorio della crisi mimetica; l’arte che li esprime meglio è la danza. In questi tre tipi di giochi, talvolta si cimentano anche gli animali. Ultimo tipo, i giochi di azzardo, speci camente umani, di cui non si cono- scono tracce nel mondo animale.

Dominot si muove su due tipi di giochi: la categoria del mimo e del te- atro in genere e quella di girare su se stessi: in certe situazioni di euforia, la danza si impossessa di Dominot trascinando gli altri. Funzionale è l’alcol che gli fa girare la testa no a ubriacarlo quando vuole sedurre truccandosi e travestendosi: allora si mette a girare su se stesso e a danzare avvolto nei suoi veli. L’alcol lo rende una specie di imprendibile bersaglio mobile, cre- andogli l’illusione che sfuggirà ai colpi dell’aggressività altrui.

«Io su queste situazioni ci gioco. Ti voglio raccontare questo. Entro in un posto e il proprietario: “Madame, madame” rimane stupefatto: «Oddìo, ma qui é entrato un uomo di una certa età e poi diventa una donna bellissi- ma!…», e qui e là. Io nella camera incomincio a bere, a cantare, a lavarmi, e intanto qualcuno bussa: “Madame! Dominique!”. E io rispondo con voce da donna, ma qualche volta con la mia voce vera, da uomo: “Ma che cosa vuole?”. E sempre io, con la voce da donna: “Oh chéri!…”. Insomma, fac- cio le due parti».

Dietro la maschera, Dominot racconta quello che vede senza che gli altri possano riconoscerlo. Il panopticon è un carcere ideale progettato nel 1791 dal losofo e giurista Jeremy Bentham: permette a un sorvegliante di osservare tutti i soggetti senza consentir loro di capire se sono osservati o meno. Osservare senza essere visto è il dispositivo che usa il potere per controllare i corpi e assoggettare i soggetti alla sua volontà. Senza render- sene conto, Dominot agisce come l’osservatore al centro del panopticon, pur essendo privo di qualunque potere istituzionale, ma in un’ottica che lo colloca nel sottosuolo dell’esistenza. L’anti-panopticon dominotiano fa sì che Dominot, senza essere visto, osservi gli effetti delle sue azioni che irridono chi vuole impadronirsi di lui.

«Io non mi sono mai innamorato di gente di teatro – dice Dominot – , non mi eccita una persona del mio campo, capisco tutti i suoi meccanismi, ma la cosa peggiore è che capisco che lui mi può capire, mi può svelare e io non voglio essere svelato; io voglio mantenere questo gioco che è mera- vigliosamente crudele».

Quando si parla di potere – secondo Foucault – non ci si riferisce sol- 233

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tanto a un potere politico determinato, ma a un potere in generale, che ha le sue propaggini in quelle zone de nibili «del micropotere», e riguardano minimi divieti, limitazioni alla libertà quotidiana, sovrapposizioni di proi- bizioni o usurpazioni di spazi da parte di strutture in lotta fra loro.

Attraverso il dispositivo della maschera, Dominot sfugge al control- lo di questi multipli micro-poteri che vorrebbero piegarlo alla propria volontà usando la pratica che gli viene da una vita da sempre abituata a muoversi negli interstizi del mondo. è così che Dominot mette in atto un meccanismo di difesa. Ma tale meccanismo si realizza anche come mec- canismo di attacco; esso si veri ca nell’accezione di lui donna: colpisce il desiderio di possesso degli uomini che gli esibiscono la loro virilità, suscitandone la libidine. è lui a impadronirsi della volontà altrui, sfug- gendo a suo piacimento alla cattura e lasciandoli in uno stato di meravi- gliata frustrazione:

(…) Io mi siedo facendo finta di niente; racconto che sono artista o che sono giornalista o altre cose. Intanto guardo e studio quello che mi piace di più. Poi vado in camera, loro vengono alla porta, ma io dico che c’è mio marito, e loro ci credono. (…) Vengono, insistono, bussano alla porta piano piano, chiamano… Io nella penombra mi metto gli occhiali, infilo i panta- loni e quando rispondo faccio la parte dell’altro, cioè del marito. Poi la cosa più bella è quando entro in albergo vestito da uomo, vado in camera ed esco donna; lascio la chiave, questi mi guardano, e mi dicono: “Madame…”.

Io esco, vado nei ristoranti, incontro gente, poi rientro di nuovo da donna e torno alla mia stanza. A volte mi tolgo la parrucca proprio davanti al porto- ne; a volte invece quando sono donna e mi chiedono di mio marito, io gli rispondo: “Io sono mio marito!”, e loro rimangono allibiti.

Se nella terminologia freudiana si descrive l’invidia del pene nella don- na, che cosa accade nel travestito, che ha un pene che cerca di nascondere, ma non di eliminare? Il pene viene «disattivato» e sostituito dall’ano o dalla bocca. Dominot esalta il pene dell’altro nascondendo il suo: Il pene dell’altro occupa la sua mente.

«Un utensile – scrive Agamben – può essere guasto e inutilizzabile e, proprio per questo, sorprenderci; può mancare e, proprio per questo ri- sultare invadente; può in ne essere fuori posto o di ostacolo, quasi che si ribellasse a ogni possibilità di uso»26.

26 Giorgio Agamben, l’uso dei corpi, 2014, p. 70. 234

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Che Dominot non abbia reciso il piccolo oggetto non utilizzato, gli con- sente di essere protetto dall’angoscia di castrazione. Nell’uomo l’angoscia di castrazione aumenta nell’atto della penetrazione con una donna. Forse è questa la ragione per cui alcuni uomini che si mostrano virili hanno biso- gno di frequentare trans, omosessuali o travestiti.

Strategie di sopravvivenza

Seguendo l’analisi psicologica che non risparmia intellettuali, religiosi, uomini di potere o persone appartenenti agli strati più bassi dell’umani- tà, Dominot de-costruisce l’identità di tali personaggi riuscendo a mette- re in crisi l’unità soggettiva di ciascuno, per cui rivela in essi un tipo di organizzazione di personalità multi-identitaria. Dominot non si stabilizza in un polo sso identitario, ma oscilla fra i diversi luoghi di costruzione dell’identità. Nel periodo storico in cui ha vissuto i primi decenni della sua esistenza, egli anticipa l’attuale crisi di identità unitaria intesa come essere identico a se stesso, sostituendola con il concetto di multidentità, che viene non più considerata un difetto o una patologia grave, al punto da dover essere trattata psichiatricamente.

L’effetto del linguaggio sul vivente, l’inizio della soggettivazione porta alla coscienza un sé fragile e instabile. Nello stesso momento in cui av- viene l’istante della soggettivazione, in quel preciso momento inizia un processo discendente de-soggettivante.

Secondo Giorgio Agamben, il punto più fragile e precario dell’uomo è l’avvento della parola. Non solo nell’atto di parlare il soggetto rischia di sprofondare, ma anche quando decide in silenzio di entrare nello spazio dell’inter-anonimato, – quello cioè in cui avvengono gli scambi sessuali – in cui un soggetto con volto diventa “cliente” anonimo di un altro soggetto – anche lui anonimo – che si offre sessualmente: in quell’istante il “clien- te” vacilla. Il “cliente” paga per poter sospendere la sua posizione di ma- schio, per abbandonarsi a uno stato che lo rende alla mercé di uno sguardo inquisitorio, giudicante, collocato paranoicamente in tanti altri. Gli occhi degli altri sono gli occhi di un amico, di un parente, di una danzata. Di fronte al “grande occhio” il soggetto prova vergogna. Secondo Do- minot il cliente prova vergogna perché ha paura di essere scoperto. Il cliente che si avvicina a Dominot forse prova vergogna di essere visto da

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quell’altro Dominot che si nasconde dietro la maschera di Dominot-donna e che potrebbe diventare un testimone minaccioso. In molti casi emer- ge la curiosità imperiosa del cliente di andare a vedere chi c’è dietro il

Dominot-donna.
Dominot si presenta come un soggetto che non prova vergogna. Ha

avuto esperienze, come in carcere, dove i bisogni naturali e i rapporti ses- suali avvenivano davanti agli altri, come se il pudore, l’intimità e la vergo- gna svanissero.

Secondo Lévinas, la vergogna è l’impossibilità di rompere con se stesso. Nel suo libro l’evasione scritto nel 1935, prima della sua prigionia, scrive: «Ciò che appare nella vergogna è dunque precisamente il fatto di essere

inchiodati a se stessi. L’impossibilità radicale di fuggirci per nasconderci a noi stessi la presenza irremissibile dell’Io a se stessa. (…) Essa non svela il nostro nulla, ma la totalità della nostro esistenza… Ciò che la vergogna scopre è l’essere che si scopre»27.

Nella vergogna il soggetto diventa lui stesso testimone del proprio dis- sesto, prova vergogna all’interno del movimento di soggettivazione e de- soggettivazione.

Per Walter Benjamin la vergogna è la paura di essere riconosciuti da ciò di cui proviamo schifo.

«Quel che rabbrividisce nel profondo dell’animo – scrive il losofo – è l’oscura coscienza che lui vive qualcosa di così poco estraneo all’animale ripugnante da riuscire riconoscibile a questo»28.

Per il lologo ungherese Karoly Kerenji la vergogna è legata al concet- to aidos in cui la passività e l’attività diventano tutt’uno, come il guardare e l’essere guardato. Il fenomeno dell’aidos ha a che vedere con l’essere visto in qualcosa in cui non ci si vorrebbe trovare.

è anche vergogna quella provata da Primo Levi davanti ai “liberatori” nel suo libro la tregua:

«Era la stessa vergogna a noi ben nota – scrive –, quella che ci sommer- geva dopo le selezioni, e ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri e vi rimorde che esista»29.

Lo stesso senso di colpa è stata descritto da Bruno Bettelheim: è la

27 Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, 2010, p. 97. 28 Ivi, p. 98.
29 Ivi, p. 81.

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vergogna di essere sopravvissuto ai campi di concentramento. Ma né Bet- telheim né Primo Levi hanno realmente superato quel senso di colpa. La loro ne dimostra che forse certi ricordi dei campi di concentramento con- tinuano a persistere nel presente, come se quel periodo non passasse mai.

Dominot ha costruito una strategia di sopravvivenza che gli ha permes- so di sfuggire alle gabbie dell’identità e alle costrizioni materiali e morali a cui è stato sottoposto nel corso della sua esistenza.

è un sopravvissuto di un mondo di violenza, di povertà e di soprusi. è stata la condizione in cui è cresciuto e ha saputo destreggiarvisi utilizzando quanto riusciva a strappare nell’ambito della cultura che a volte assorbiva negli incontri casuali con intellettuali, attori, personalità. Da una mancanza di coscienza morale in cui viveva, senza che vi fosse separazione fra bene e male, è andato via via raggiungendo un livello etico senza aderirvi total- mente. Un cammino inverso rispetto agli autori citati – Levi e Bettelheim – che da una coscienza morale erano precipitati in un universo distruttivo di ogni valore, non riuscendo a sopravvivere.

Ha potuto sopravvivere perché, come più di una volta ha ripetuto dando particolare rilievo ad esso, “Il teatro mi ha salvato”.

Il teatro fa parte dell’economia dell’immaginario che si esprime allo stesso modo del sogno e del gioco. Secondo Freud il gioco permette a un bambino di rielaborare le angosce e le ansie; da soggetto passivo il bambi- no diventa attivo essendo capace di reimpostare una scena carica di paure e di incertezze. Il sogno, nella terminologia psicanalitica, costituisce la “via regia” verso l’inconscio; soprattutto, il sogno permette al sognante di rea- lizzare il desiderio.

I detenuti suoi compagni – racconta Dominot – la domenica inventa- vano un loro teatro, in cui tutti a livello immaginario potevano girare per Roma o per qualunque altro luogo uno di loro suggerisse: è anche questa una forma di teatro che salva la persona dalla riduzione allo stato dell’ano- nimato recuperando la sfera dell’intersoggettività. L’immaginazione crea- tiva non è soltanto una capacità riservata a pochi, ma un’intelligenza che appartiene a ogni uomo, non sempre in grado di scoprirla da solo, è neces- saria la sollecitazione di un altro, sia che si tratti di una persona, sia di un autore o di una sua opera. La struttura letteraria ha permesso a Dominot di fornirgli un supporto per leggere, interpretare e liberarsi dalla costrizione della sua vita reale.

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Malgrado questa vita difficile in cui mi barcamenavo, c’era sempre il mio grande amore per il teatro. E appena potevo andavo a vedere degli spettaco- li, e leggevo, leggevo… I libri, me li facevo prestare soprattutto, di soldi per comprarmene non ne avevo. Flaubert, Lamartine, e poi i classici francesi, Corneille e Racine, e Molière, e mi piaceva tanto Voltaire. La mia cultura me la sono formata così, basi vere e proprie non ne ho avute mai. E i miei amici erano meravigliati che io potessi penetrare dei testi così difficili senza aver mai studiato.

In questo saggio si è cercato di analizzare la gura di Dominot da diver- se angolazioni. Una lettura lacaniana permette di inserire il suo montaggio e smontaggio di sé in una dialettica tra l’Io e il Grande Altro. Per Lacan il Grande Altro è l’Ordine costituito, il Potere, il Sistema.

Dominot “si diverte” a smascherare l’apparato del potere che si incarna nelle gure del poliziotto che decide di sedurlo, nel maschio che si traveste davanti a lui, e addirittura in quel maschio che è lui stesso e che funziona da supporto per il montaggio di sé.

Queste sono operazioni nelle quali Dominot funziona sia come autore che come attore di un discorso che lo trascende.

Il Grande Altro si manifesta attraverso il processo in cui la macchina del godimento funziona colpendo e facendo fallire lo stesso Grande Altro, come se il principio di morte si impadronisse del godimento al di là del principio di piacere.

La voce e lo sguardo sono i due oggetti de niti da Lacan oggetti parziali che vengono aggiunti a quelli descritti da Freud come il seno, le feci, il fallo. L’essere oggetti viene a signi care che la voce e lo sguardo non hanno niente a che vedere con il soggetto che osserva e che ascolta, ma sono gli

oggetti da vedere e da ascoltare.
Avevamo accennato alla pulsione escopto lica, ovvero al godimento

che si otterrebbe con l’oggetto che si guarda. Qui dovremmo aggiungere un godimento che ha a che vedere con la voce che si ascolta, quindi si po- trebbe de nire anche una pulsione audio lica.

Nel caso di Dominot che si traveste da donna cercando di organizzare una gura che riproduce la Bardot, che si esprime con la voce della Piaf, si viene a condensare una gura mostruosa che rimanda a un godimento osce- no secondo Slavoj Žižek. In questo punto si viene a concentrare una tensio- ne fra una forza che abbiamo descritto come ingenua, pura, e una forza che arriva come a sconvolgere lo sguardo che si posa su tale con gurazione.

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Attrazione e repulsione sono i due movimenti inconsci-consci che fan- no dire allo stesso Dominot «Non voglio far vedere quello che c’è dietro il mio travestimento», perché l’accesso a questa verità rimanderebbe a una violenza originaria e a una crudeltà che ha accompagnato parte della vita del protagonista.

In sintesi, Dominot riesce a produrre una transustanziazione in cui il mostruoso, la triplice costruzione – Dominot uomo da non guardare, corpo della Bardot da vedere e la voce della Piaf da ascoltare – diventa bellezza, ovvero l’ultimo velo che nasconde il tremendo come aveva scritto Rilke.

Francisco Mele, (Valsinni, MT), ha studiato a Buenos Aires laureandosi in psicologia e ottenendo un Ph. D. (Dottore di ricerca); è divenuto poi docente nell’Università e nel “Colegio del Salvador”, dove ha tenuto per dieci anni la cattedra di Psicologia prima appartenuta a Papa Bergoglio. In Argentina ha lavorato presso ospedali psichiatrici, carceri e istituti minorili. In Italia, dove è didatta, psicanalista e docente di Sociologia della famiglia, è stato responsabile del Servizio Famiglia del CeIS-Centro Don Picchi. Fra i saggi su tossicodipendenza, AIDs e problematiche familiari, Il volto dell’altro – AIDs e immaginario (Meltemi) con M. Boggio e L.M. Lombardi Satriani; Io diviso/Io riunito (FrancoAngeli); le spie dell’incertezza (Bulzoni); Il disincanto con M. Boggio e R. Bortino, e mio caro nemico (Armando).

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