I VOLTI DELLA DEPRESSIONE

I volti della depressione: da malattia sociale a occasione di cambiamento
mercoledì, luglio 4th, 2012.
AL CONVEGNO SULLA DEPRESSIONE ORGANIZZATO DALL’ARPCI

convegni e seminari by Piera Lombardi

È bene secondo il terapeuta parlare di meccanismi d’attacco dei disturbi da aggiungere a quelli più noti di difesa. Mele ha individuato le modalità d’attacco del depresso nell’atteggiamento di passività o, se prevale la fase maniacale, nell’iperattività. Ambedue presuppongono ciò che ha definito ‘deficit etico di personalità’ o nella versione più grave ‘disturbo etico di personalità’. In entrambi i casi, c’è il non rispetto dei principi etici fondamentali e universali: della vita, della libertà dell’altro, della responsabilità delle proprie azioni. Situazioni in cui tutti noi in vari modi cadiamo. “Ma mentre se i batteri attaccano l’organismo non c’è giustificazione che tenga, se noi attacchiamo lo facciamo sempre e solo per difenderci o per il bene degli altri, forse per questo il meccanismo di attacco non c’è in psicologia”. Sia il deficit che il disturbo implicano quindi secondo il relatore un’intenzionalità: “tanti pensano in psicopatologia che uno scelga la propria malattia, la scelta è anche di non scegliere, di non uscire dalla depressione perché ha vantaggi la scelta della propria infelicità, le persone a volte scelgono di essere infelici, ripetono lo stesso comportamento che le porterà al proprio scacco, lo scacco del soggetto. La depressione è anche il soggetto in ostaggio di se stesso”. Un ostaggio che imprigiona anche la famiglia. Senza arrivare agli estremi di Lacan che considerava la depressione una viltà morale (“non ritengo lo sia, ha obiettato Mele perché chi è depresso sconta il proprio stato”), c’è comunque una scelta della propria infelicità.

Che epoca curiosa la nostra, involontariamente dispensatrice di doni anomali. Se il dramma della colpa è alle spalle, resta la tragedia unica da insufficienza della performance che obbliga, chi più chi meno, a dosi minime o massime, ad abbracciare la depressione almeno una volta nella vita come altrove è d’obbligo andare a La Mecca. Prego favorite! Un po’ di depressione ognuno la deve almeno assaggiare e non per questioni di bile nera o antiche dicerie. Di fatti il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi. Depressione e società sostiene che la depressione nella sua dilatazione di significato è “una forma di malattia che si presta particolarmente bene alla comprensione dell’individuo contemporaneo e dei nuovi dilemmi che lo abitano”; inoltre costringe la psichiatria a contorsionismi (ma anche la psicoanalisi e ogni scuola di psicoterapia) perché “ieri come oggi gli psichiatri non sanno come definirla”. Il depresso poi è paziente che mette a dura prova, quasi insostenibile, perché lamentoso, pesante. Di questi e altri temi collegati si è parlato nel corso del convegno Depressione: il sole nero organizzato a Roma dall’Arpci, Associazione per la ricerca in psicoterapia cognitivo-interpersonale. Il titolo del convegno ha preso spunto dal libro della semiologa e psicoanalista franco-bulgara Julia Kristeva, Sole nero, Depressione e melanconia (1986). È emerso, tanto per cominciare, che affrontare il tema richiede un cambio radicale di paradigma: seguendo lo psicoanalista André Green non di depressione si deve parlare ma di depressioni a cui si possono applicare varie chiavi di lettura: i meccanismi d’attacco che usa, le trame familiari sottintese, l’infanticidio che la manifesta al culmine della disperazione.

Approdati al XXI secolo qualcosa è accaduto, più di una lieve metamorfosi: “In passato la depressione era considerata una malattia mentale rara – ha precisato Gennaro Scione, direttore dell’Arpci ad apertura dei lavori – ma dagli anni ’80 si è diffusa in Occidente come un’epidemia. L’Organizzazione mondiale della Sanità prevede che nel 2020 diventerà la seconda causa di malessere solo preceduta dalle malattie cardiovascolari. C’è stato un aumento di pazienti curati per questa patologia; un vertiginoso aumento di antidepressivi prescritti anche a bambini e adolescenti; i farmaci antidepressivi sono stati oggetto di una campagna di marketing rivolta al consumatore che ha trasformato la tristezza da emozione a squilibrio del cervello che si può curare come si cura l’ipertensione. L’avanzare di un’impostazione biologica in psichiatria ha fatto sì che la distinzione tra depressione clinica e reazioni a episodi tristi sia stata eliminata e così le tradizionali classificazioni”. Vuoi o non vuoi, dunque, ci si ritrova a essere nel girone dei depressi, a meno che un lutto non conceda il ‘privilegio’ di poter indossare la tristezza così come è.

Francisco Mele, psicoterapeuta e didatta specializzato nella terapia familiare (dirige da 26 anni il centro della famiglia del Ceis) l’ha detto provocatoriamente con le parole di Romano Guardini: “La depressione non deve essere lasciata in mano agli psichiatri e agli psicologi”. Come si fa a curare la depressione altrui se non si vede la propria? In questo senso per Mele molto dobbiamo imparare dalle scuole di psicologia orientali: “cinquemila anni di addestramento a sondare l’umano con rigore e severità non sono uno scherzo”. Nella sua analisi densa e complessa per spiegare una delle modalità della depressione contemporanea (fatta di precisi meccanismi d’attacco e con risvolti etici), Mele ha attinto alle teorie di René Girard, l’antropologo antiaccademico che è stato indagatore dei profondi moventi umani; si è riferito ai paradigmi della sociologia passata (le teorie del malessere e del deficit, “teorie che Freud contesta sostenendo che la psiche umana si muove nel conflitto, legge tutta la società come conflitto che si manifesta nell’individuo come sintomo”) e più recente. Perché Mele si è detto convinto che “il tema della depressione è nel sociale. La questione ora è come la crisi sta incidendo sulla nostra psiche. Come incide sulla depressione. Stiamo vivendo una guerra economica globale e non riusciamo a capire chi sono i giocatori”.

In un mondo dove il principio della responsabilità è saltato e “quelli che hanno provocato la crisi sono gli stessi che poi ci vogliono suggerire la cura, allora c’è uno spazio micro o macro che influisce sulla nostra psiche, c’è una correlazione tra quel che accade nel macrosociale e nel micro”. È bene secondo il terapeuta parlare di meccanismi d’attacco dei disturbi da aggiungere a quelli più noti di difesa. Mele ha individuato le modalità d’attacco del depresso nell’atteggiamento di passività o, se prevale la fase maniacale, nell’iperattività. Ambedue presuppongono ciò che ha definito ‘deficit etico di personalità’ o nella versione più grave ‘disturbo etico di personalità’. In entrambi i casi, c’è il non rispetto dei principi etici fondamentali e universali: della vita, della libertà dell’altro, della responsabilità delle proprie azioni. Situazioni in cui tutti noi in vari modi cadiamo. “Ma mentre se i batteri attaccano l’organismo non c’è giustificazione che tenga, se noi attacchiamo lo facciamo sempre e solo per difenderci o per il bene degli altri, forse per questo il meccanismo di attacco non c’è in psicologia”. Sia il deficit che il disturbo implicano quindi secondo il relatore un’intenzionalità: “tanti pensano in psicopatologia che uno scelga la propria malattia, la scelta è anche di non scegliere, di non uscire dalla depressione perché ha vantaggi la scelta della propria infelicità, le persone a volte scelgono di essere infelici, ripetono lo stesso comportamento che le porterà al proprio scacco, lo scacco del soggetto. La depressione è anche il soggetto in ostaggio di se stesso”. Un ostaggio che imprigiona anche la famiglia. Senza arrivare agli estremi di Lacan che considerava la depressione una viltà morale (“non ritengo lo sia, ha obiettato Mele perché chi è depresso sconta il proprio stato”), c’è comunque una scelta della propria infelicità. Il termine depressione quindi può stare a indicare qualcosa che va oltre il quadro psicopatologico. L’assunto di base attacco e fuga utilizzato da Wilfred Bion o il concetto di arsenale bellico, a seconda se siamo dotati o meno di armi per non subire passivamente le situazioni, sono allora segnalatori di precisi stati mentali. “Perché è sempre il confronto con l’altro con la a maiuscola di Lacan che ci permette di collocarci in un punto”. Nella depressione c’è anche di mezzo la questione del desiderio. Mele ha fatto riferimento alle teorie di Girard per il quale, a differenza di Lacan, il desiderio non è desiderio dell’altro (ciò che l’altro desidera che io faccia), ma è desiderio di appropriazione (desidero quel che l’altro desidera) e desiderio mimetico, il ‘teatro dell’invidia’ nell’opera di Shakespeare studiata da Girard, che innesca un certo tipo di depressione.

“Allora capire la depressione è capire il gioco delle alternanze che si mettono in campo. Gli ordini di riconoscimento ci portano a subire o sopportare le alternanze degli umori. Vengo o non vengo riconosciuto? Il disconoscimento provoca che vado in depressione e mi rattrista il successo dell’altro”. Nel calderone ci sono tante depressioni. Questo tipo di lettura spiega le nuove depressioni di cui ha parlato André Green. “Sono i sintomi in cui si vede di più la nostra società. Le nuove depressioni sono legate alla mancanza dell’essere di cui parla Lacan, alla difficoltà di essere al top della prestazione nella nostra società, alla paura dell’esclusione”. Pensiamo ad alcune delle minacce che pesano quotidianamente sulle nostre teste: “La Grecia esce dall’euro; l’Italia uscirà si o no? Gli esclusi non sono più quelli del terzo mondo, già nati esclusi”. Esclusi siamo noi. Il sociologo francese Ehrenberg, ha ricordato Mele, lo ha scritto: la nostra esistenza è all’insegna della precarietà emotiva, affettiva, sociale, economica. “La crisi a livello verticale della gerarchia si accompagna alla rottura di ogni sistema di protezione, pensionistico, lavorativo, siamo soli davanti al mondo, abbiamo perso l’occasione di sentirci comunità”. Nella società dall’identità webizzata, in link-fazione, (espressioni coniate da Mele) prevale la sensazione di essere soli al mondo. “E se perdiamo tutto come facciamo? In questo contesto paradossalmente le persone più attrezzate sono i tossicomani che sanno sopravvivere per strada”.

I commenti sono chiusi.