PIGRIZIA, INSONNIA, NAUSEA, APATIA

FRANCISCO MELE
(PUBBLICATO SULLA RIVISTA SALESIANA DONBOSCO.IT
9 NOVEMBRE 2006)

Riflessioni sulla condizione giovanile alla luce dell’insegnamento di Lévinas.
Non si può dire che tutti i giovani siano pigri o che non vogliano crescere o che preferiscano non assumere ruoli di responsabilità; ci sono ragazzi iperattivi come ci sono ragazzi apatici e senza voglia di vivere…
Il concetto relativo ai mali dell’esistente,secondo Lévinas, riguarda la fenomenologia di alcuni stati d’animo, come la stanchezza, la pigrizia, l’insonnia e la nausea.
Questi quattro modi di affrontare il rapporto con il mondo si trovano alla base del disagio giovanile.

Non si può dire che tutti i giovani siano pigri o che non vogliano crescere o che preferiscano non assumere ruoli di responsabilità; ci sono ragazzi iperattivi come ci sono ragazzi apatici e senza voglia di vivere.

Una parte di giovani – gli iperattivi – manifesta una spiccata propensione nell’imparare le nuove tecnologie utilizzando ad esempio l’informatica; tale capacità ha consentito che, pur più giovani dei dirigenti, acquistassero delle posizioni chiave all’interno delle organizzazioni; essi si sono dimostrati abili nell’apprendere il linguaggio tecnico e capaci di risolvere con prontezza dei problemi che vanno dal semplice uso del computer alla comprensione del mercato azionario; questa sintonia ha dato loro un vantaggio senza precedenti nel mondo degli studi e del lavoro.

L’informatica, carente di una tradizione – si sta appena affacciando una seconda generazione di usufruitori -, ha portato certi giovani a prescindere da un’esperienza in precedenza acquisibile in un ampio arco di tempo e a trovarsi in posizioni di comando prima di aver raggiunto una vera e propria maturità. Quasi geniali, capaci di parlare più lingue, in possesso di diverse lauree, masters e corsi di specializzazione nelle migliori università europee o americane, si trovano in una situazione di vantaggio nei confronti di altri giovani che non riescono ad inserirsi in un sistema sempre più selettivo e tecnologicamente complesso; tuttavia si scontrano poi tra di loro in una competizione ancora più selvaggia di quella delle epoche passate.

Alcuni giovani proseguono ancora le attività delle generazioni precedenti: non geniali ma neanche mediocri, sono capaci di impegnarsi, sia pure attraverso ammodernamenti e innovazioni, nelle mansioni portanti di una società, lontani dalla bramosìa di potere dei loro coetanei ‘geniali’, nel contempo non soccombendo alla ‘pigrizia’ di quei giovani ai margini delle istituzioni che si sono auto-esclusi o sono stati esclusi dai posti di comando.

Il potere, dunque, può diventare una forma di dipendenza; ma a differenza delle altre forme di dipendenza – come la tossicodipendenza, l’anoressia, l’alcoolismo, dove l’azione del soggetto dipendente colpisce appena una cerchia di persone, gli amici o la famiglia o il posto di lavoro -, chi esercita il potere e ne patisce la dipendenza può a sua volta influire negativamente sia su piccoli gruppi – può comandare su una associazione senza grande importanza -, oppure coinvolgere istituzioni di maggior peso, arrivando addirittura ad esercitare il suo potere su di una nazione.

Nella dipendenza dal potere non viene coinvolto soltanto chi lo ostenta attivamente, ma anche chi lo subisce. Il ‘potente’ esercita fascino sulla maggior parte delle persone, soprattutto su chi ha bisogno di una guida, di amore e di protezione; egli viene sentito come un ‘padre’, magari terribile, ma pur sempre un elemento su cui appoggiarsi cedendogli la sua libertà decisionale. Il ‘malato di potere’ perde la concezione del tempo – agisce come se il suo mandato non scadesse mai -, si sente ‘proprietario’ del luogo nel quale esercita il potere; ne vive il ruolo come parte del suo essere, non riesce a immaginarsi senza potere.

Per lui la perdita del potere può significare non una semplice scadenza del mandato, ma anche la morte fisica – alcuni si suicidano, altri si ammalano di malattie gravi, altri accusano malattie psicosomatiche -, mentre non sono rari i casi in cui, privati del potere, alcuni cadono in altre forme di dipendenza – alcoolismo, droga – o soffrono profondi stati depressivi, abusando poi di psicofarmaci; privati del potere, possono sperimentare delle forme di astinenza molto simili a quelle che presentano i giocatori d’azzardo o i tossicodipendenti.

Ai giovani ‘rampanti’ e a quelli ‘malati di potere’ – due categorie iperattive – si contrappongono i giovani apatici, che appaiono stanchi, abulici, pigri, senza volontà di lottare, paurosi del futuro e insofferenti del presente. Lévinas sostiene che ‘ (…) ciò di cui ci si stanca non è un aspetto della nostra vita, ma è la vita stessa. Essere stanchi significa abdicare all’esistenza’ (Emanuel Lévinas, ‘Dall’esistenza all’esistente’, Marietti, Casale Monferrato, 1986). Ci sono giovani che si sentono vinti prima di iniziare il loro percorso, che fanno addirittura fatica ad alzarsi dal letto alla mattina, e cedono alla tentazione di poltrire.

Questo abdicare dell’esistenza rappresenta comunque da parte di questi giovani una sfida a una società che oscilla tra l’esaltazione della vita – accanimento medico di fronte a casi clinici disperati, procreazione artificiale, manipolazione genetica ecc.- e la cultura della morte – armi sofisticate, mezzi di trasporto dalle velocità mortali, consumo di sostanze nocive a scopo di esaltazione, musiche fuorvianti e così via.

Nella passività del ‘pigro’ che consuma i suoi giorni senza realizzare nessun progetto, in una specie di intenzione verso un ‘anti-progetto’ o nell’intenzione suicida del tossicodipendente, sembra compiersi quella tendenza al ritorno o all’abbandono in quel luogo senza luogo del neutro, che è l”il y a’ di Lévinas. L’intenzione suicida si contrappone al processo dell’ipostasi, cioè della lotta che sostiene il vivente per staccarsi dal fondo oscuro del neutro, che ha bisogno di alzarsi in piedi per poter realizzare il proprio progetto. Questa tentazione si configura attraverso alcuni aspetti, che si concretizzano nella volontà di agire soprattutto nell’oscurità della notte, dove si anima il mondo delle discoteche, delle corse con le automobili e le moto, degli incontri dove circola la droga; l’oscurità favorisce questa vita-non vita; è la tentazione della notte ad offrire molteplici aspetti per questo ‘cupio dissolvi’, desiderio di dissolversi di tante giovani vite. La notte non è solo metafora del suicidio, ma può rappresentare lo scenario privilegiato per certi giovani ed anche per tanti, di diverse età, che scelgono di essere altro dalla loro connotazione di sesso, di appartenenza, di cultura. Questa volontà di essere altro da sé, questa evasione da un’esistenza grigia, insopportabile, può portare non solo allo ‘sballo’ da sostanze, ma a travestimenti, a trucchi, a immagini che svaniscono appena si fa giorno.

Tra l’ipostasi della sveglia e l’attrazione della notte si colloca l’insonnia: essa significa contenere la paura di rimanere in quel ‘neutro’ senza neanche le immagini oniriche, e sorvegliare la sfiducia verso gli altri, perché ci si addormenta se si è sicuri che i nemici sono lontani o resi innocui. Il pigro invece ha trovato il luogo dove riposarsi senza mai alzarsi dal letto. Nell’insonnia – come dice Lévinas – ‘gli occhi sono aperti, ma non c’è il soggetto’, metafora del tossicodipendente che si presenta come un essere umano che capisce tutte le leggi della società e della vita, ma si comporta come qualcuno che non c’è quando viene chiamato ad assumersi le sue responsabilità. Il tossicodipendente si mostra come pigro e insonne. Nella pigrizia il soggetto rifiuta di esserci per paura della vita, nell’insonnia cerca di mantenersi apparentemente sveglio per paura della morte.

Ma chi non può scrollarsi di dosso l’esistenza, chi non può modificare la propria vita, prova la nausea. Laura Pialli, nel suo libro ‘La fenomenologia del fragile. Fallibilità e vulnerabilità tra Ricoeur e Lévinas’ (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli ,1998) descrive la nausea sartriana come la sensazione della prigionia, del sentirsi ostaggio della propria esistenza. Lévinas associa la nausea con l’impossibilità di fuggire dalla presenza del proprio essere.

Il rifiuto del cibo – o il vomito nell’anoressia-bulimia – rappresenta l’indietreggiamento del soggetto, la nausea di un’esistenza che minaccia di riempire il corpo del soggetto che si trova a rischio di esplodere in quanto non riesce a risolvere le aporìe della vita: essere/non essere, diventare uomo/diventare donna, rispettare/trasgredire la legge umana o della natura.

Qual è il ruolo di un operatore quando si trova davanti a persone che rifiutano di vivere? Come si può aiutare qualcuno che rifiuta qualsiasi offerta di aiuto? Si può costringere qualcuno a ‘dover vivere’?

Francisco Mele è responsabile del “Progetto Famiglia” del CeIS presieduto da don Mario Picchi. Tra le ultime publicazioni,ì: “Io diviso/Io riunito. Per una psicoetica dell’operatore sociale” (FrancoAngeli – Milano 2001); “Le spie dell’incertezza. Famiglia, scuola e istituzioni. La costruzione del Sé allo sbando” (Bulzoni – Roma 2004)

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