Decreto legge sulle detenute madri in Parlamento

ddl sulle detenute madri presentato in Parlamento

Adnkronos, 6 ottobre 2008

Mele sottolinea che però “occorre vedere per quale ragione la madre sia finita in carcere. È sicuramente riscontrabile un trauma nel minore quando il contesto familiare in cui viveva era sano e tranquillo” e la madre è finita in carcere per “un incidente di percorso”. “Diverso è invece il discorso – spiega lo psicanalista – per i bimbi nati in un contesto delinquenziale dove la criminalità organizzata, il furto e altri reati fanno da padroni e sono la normalità”. Dunque, diversi sono i modelli a cui si ispirano i piccoli, diversa è la reazione e l’incidenza nella sfera psico-affettiva. Particolarmente positiva è per Mele la previsione dell’allungamento del limite d’età del minore da 3 a 10 anni, perché attraverso un lavoro di tipo educativo e psicologico del piccolo nel contesto familiare si può aiutare la madre a cambiare.

“Da una parte – spiega l’esperto – si rinforza il sistema psico-emotivo del bimbo e dall’altra si cerca di cambiare il sistema morale di certe famiglie”. Inoltre, ribadisce Mele, occorre differenziare ogni madre: “la madre infanticida – aggiunge – come fa ad accudire un figlio? Lì si deve intervenire psicologicamente. Si tratta di un lavoro terapeutico che agisce sulle emozioni perché spesso non siamo educati a gestirle. E attraverso il bimbo ci può essere il recupero anche della madre”. C’è infine un ultimo punto importante da affrontare, precisa lo psicanalista: La giustizia – conclude Mele – rappresenta il “Terzo” e molti bambini crescono nella convinzione che il giudice è cattivo perché ha punito ingiustamente la madre e quindi si costruiscono un’idea sbagliata di giustizia. È proprio sul limite tra giustizia e ingiustizia che si deve lavorare per insegnare ai piccoli i giusti valori.

Approda in Parlamento un nuovo disegno di legge a tutela dei figli delle madri detenute costretti per un ingiusto destino alla prigionia forzata. Il nuovo testo che ricalca la proposta di legge presentata nella scorsa legislatura dall’on. Enrico Buemi porta ora la firma dei senatori del Pd Donatella Poretti e Marco Perduca e mira alla la realizzazione di case-famiglia protette, o l’individuazione di strutture analoghe. Tra i punti cardine del testo, la previsione che la madre detenuta potrà accompagnare il figlio al pronto soccorso o in ospedale quando ne abbia bisogno. Un diritto che appare scontato, soprattutto perché riguarda i piccoli che non abbiano varcato la soglia del terzo anno d’età. Per una migliore tutela della sfera psico-affettiva e dello sviluppo del bambino, inoltre, si stabilisce un nuovo limite di età del figlio, ossia dieci anni anziché tre, per la convivenza con la madre in custodia cautelare o in esecuzione della pena presso una casa-famiglia protetta.

Nel ddl, costituito da sei articoli, viene poi affidata al Giudice la discrezionalità per estendere, a seconda dei singoli casi, questi provvedimenti anche alle madri di figli con più di dieci anni. Più diritti inoltre per i figli di detenute straniere: si prevede, nell’ottica di ricongiungere e assicurare continuità nella formazione del bambino, un permesso di soggiorno per i piccoli. Tutte misure dunque che vogliono cancellare l’impatto traumatico dei piccoli con l’ambiente carcerario. Ma “non sempre si tratta di un trauma” e spesso con il “recupero del minore si può arrivare anche a quello della madre”, spiega all’Adnkronos lo psicanalista Francisco Mele, che ha lavorato in Argentina in ospedali psichiatrici e istituzioni minorili e che è stato a contatto con il fenomeno delle madri detenute. Mele, che dirige il Settore Terapia Familiare del Ceis ed è docente di Sociologia della Famiglia e di Pedagogia della devianza e dell’emarginazione minorile presso l’Istituto “Progetto Uomo”, sottolinea come in certi contesti delinquenziali in cui cresce il bambino l’impatto con il carcere sia diverso.

Premettendo la positività del nuovo ddl perché tutto ciò che “riguardi il bene del minore è da appoggiare”, Mele sottolinea che però “occorre vedere per quale ragione la madre sia finita in carcere. È sicuramente riscontrabile un trauma nel minore quando il contesto familiare in cui viveva era sano e tranquillo” e la madre è finita in carcere per “un incidente di percorso”. “Diverso è invece il discorso – spiega lo psicanalista – per i bimbi nati in un contesto delinquenziale dove la criminalità organizzata, il furto e altri reati fanno da padroni e sono la normalità”. Dunque, diversi sono i modelli a cui si ispirano i piccoli, diversa è la reazione e l’incidenza nella sfera psico-affettiva. Particolarmente positiva è per Mele la previsione dell’allungamento del limite d’età del minore da 3 a 10 anni, perché attraverso un lavoro di tipo educativo e psicologico del piccolo nel contesto familiare si può aiutare la madre a cambiare.

“Da una parte – spiega l’esperto – si rinforza il sistema psico-emotivo del bimbo e dall’altra si cerca di cambiare il sistema morale di certe famiglie”. Inoltre, ribadisce Mele, occorre differenziare ogni madre: “la madre infanticida – aggiunge – come fa ad accudire un figlio? Lì si deve intervenire psicologicamente. Si tratta di un lavoro terapeutico che agisce sulle emozioni perché spesso non siamo educati a gestirle. E attraverso il bimbo ci può essere il recupero anche della madre”. C’è infine un ultimo punto importante da affrontare, precisa lo psicanalista: La giustizia – conclude Mele – rappresenta il “Terzo” e molti bambini crescono nella convinzione che il giudice è cattivo perché ha punito ingiustamente la madre e quindi si costruiscono un’idea sbagliata di giustizia. È proprio sul limite tra giustizia e ingiustizia che si deve lavorare per insegnare ai piccoli i giusti valori.

Sono una settantina i bambini di età inferiore a tre anni, che insieme alle loro madri vivono nelle carceri italiane. Figli di donne detenute in attesa di giudizio o in esecuzione di pena, che sono costretti a restare dietro le sbarre a causa delle norme adottate per evitare il dramma della separazione tra madre detenuta e figlio in tenera età. Dai dati del V Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, a cura dell’Associazione Antigone e presentato a Roma a luglio scorso, sarebbero 2.385 le donne detenute, 68 delle quali madri, e 70 i bambini di età inferiore ai tre anni reclusi con le mamme; mentre altre 23 donne detenute, al momento, risultavano in gravidanza.

In Europa sono 800.000 i bambini figli di genitori detenuti, 43.000 gli italiani. Gli istituti penitenziari dedicati esclusivamente alla popolazione femminile sparsi per l’Italia sono 7 e 62 le sezioni femminili situate in istituti penitenziari maschili. Le donne sul totale della popolazione carceraria incidono nei termini del 4 – 5% e di queste il 43% è rappresentato da donne straniere. La maggior parte delle donne finisce in carcere per reati come il furto, lo spaccio di sostanze stupefacenti, infrazioni della legge penale legate allo sfruttamento della prostituzione. Le nomadi vengono incarcerate soprattutto per piccoli furti e per ragioni legate al loro stile di vita hanno difficoltà ad ottenere misure alternative al carcere, le stesse che incontrano le detenute italiane i cui reati sono legati al mondo della tossicodipendenza e per i quali è alta la recidiva.

È stata la legge 40 del 2001, riguardante le misure alternative alla detenzione “a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”, voluta dall’allora Ministro per le Pari Opportunità Anna Finocchiaro, a indicare per prima come evitare la detenzione in carcere a donne con figli minori di 10 anni. Tutte le detenute, anche se hanno commesso reati gravi, possono oggi usufruire del provvedimento ad alcune condizioni: aver scontato un terzo della pena e, nei casi di ergastolo, aver scontato almeno 15 anni.
Per essere ammesse alle misure, non ci deve essere pericolo di commettere ulteriori delitti, condizione che mal si adatta a reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti e alla prostituzione, che tipicamente presentano un alto tasso di recidiva e per cui sono incriminate la maggior parte delle detenute-madri. La normativa inoltre è stata spesso disapplicata dai giudici e presenta limiti di accesso ai benefici soprattutto per chi è in attesa di giudizio.

Le mamme straniere, in particolare, non avendo spesso un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari, sono costrette a tenere i bimbi in strutture di detenzione fino al compimento dei tre anni, quindi soffrire dell’ulteriore trauma della separazione. La “legge Finocchiaro”, è stata però solo un punto di partenza. “La coabitazione dei bambini nei luoghi di pena – si spiega nel nuovo ddl – travalica qualsivoglia ragionamento giuridico o posizione ideologica, e rappresenta un’aberrazione da cancellare. È consolidato in letteratura l’orientamento che, per lo sviluppo psicologico del bambino, il rapporto madre-figlio sia di primaria importanza. Privare un bambino della figura materna, in quanto figlio di una detenuta, è una violenza che contraddice la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia”.

Del resto, impedire a tante detenute di vivere la propria condizione di madre fuori dagli istituti penitenziari, spiegano i firmatari del testo “è un ostacolo alla riabilitazione della donna, oltre che un impedimento perché i bambini vivano in un ambiente più confortevole del carcere e più idoneo alla loro crescita”. Non è quindi opportuno, spiega il nuovo disegno di legge, per la tutela degli affetti del bambino, il “limite della legge Finocchiaro sulla convivenza con i figli, per le detenute con bimbi di età non superiore ai 3 anni; né è opportuno stabilire a priori l’età dell’indipendenza del minore dalle cure parentali, perché relativa alla soggettività di ogni bimbo. Il presente disegno di legge – si legge – pur stabilendo il tetto normativo fino a dieci anni, per una migliore tutela dello sviluppo del bambino, affida al Giudice discrezionalità per estendere questi provvedimenti anche alle madri di figli con più di dieci anni”.

(nell’immagine) Pablo Picasso – “Madre”

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