Camminarsi dentro
La parola dell’altro

CAMMINARSI DENTRO (326):

Credere alla parola dell’altro è la prima mossa della ragione

Creato il 06 gennaio 2012 da

GABRIELE DE RITIS

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Vedere “Credere alla parola dell’altro è il primo gesto”
Intervista di Francisco Mele a Paul Ricoeur 

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Nella lunga esperienza di Educatore impegnato nei colloqui di motivazione, all’interno del Centro di ascolto, c’è una ‘premessa teorica’, da me posta alla base del lavoro di ascolto, che non ho mai dichiarato: mi dispongo all’ascolto della persona che per la prima volta accede alla sede prestando fede a tutto ciò che mi dirà.
Non si tratta certo di una scelta ingenua: non penso che tutto ciò che viene detto sia vero senza ombra di dubbio. Non mi guida la convinzione che chi parla non mente mai! Anzi, nel caso del tossicomane ci è stato insegnato dai Fondatori di Comunità che essi «mentono sempre, anche quando dicono la verità»!, a significare che quello che sembra vero oggi probabilmente non sarà più vero domani per loro. Sono instabili nei loro propositi.
Eppure, c’è nel loro atteggiamento generale nei confronti di chi li accoglie una ‘disponibilità’ e un’apertura di cui bisogna ‘approfittare’: chi varca la soglia di un Servizio pubblico o privato ha un proprio sistema di attese che è importante conoscere e su cui fare leva. Entrare per la prima volta in un SER.T. o in un Centro di ascolto per tossicodipendenti equivale ad ammettere di essere invischiati in una situazione diventata insostenibile per la persona.
A dispetto del ‘sistema delle resistenze’ che pure viene messo in opera al primo accenno al cambiamento, io non avanzo mai in direzione della proposta di cambiamento. Addirittura, non parlo mai di un’offerta di aiuto o delle ‘ragioni’ di chi accoglie il nuovo venuto.

Piuttosto, mostro interesse per la persona, per la sua salute fisica, per il suo benessere morale. Mi domando perché sia venuta da me. Mi muovo nello spazio ristretto in cui solitamente ci si muove quando qualcuno viene a trovarci e non sappiamo ancora bene cosa abbia da dirci. Siamo un po’ eccitati e curiosi. Chiediamo come abbia avuto notizia di noi. Solo dopo, invito la persona a parlare di sé.
E’ questo il momento in cui l’altro non può fare a meno di aprirsi: è stato toccato in una zona sensibile, in un momento in cui non era avvertito e vigile; non ha compreso quello che è già accaduto, ché è stato interpellato con nonchalance a fare la cosa a cui si resiste di più, cioè raccontare la propria vita.
Il varco cercato si mostra ‘finalmente’ a noi: siamo nell’Aperto, nello ‘spazio’ dell’esperienza dell’altro, nell’invisibile della sua esperienza, in cui ci immette lui stesso, come se quello che ci mostra fosse impersonale esteriorità! Le sue emozioni gli dicono che non è così, ma si sforzerà comunque di narrare fatti, convinto che non passeranno contestualmente altre informazioni, schegge di vissuto, spie di quell’Inconfessabile che ognuno di noi custodisce gelosamente, mettendolo al riparo dagli sguardi indiscreti.
Mostrare interesse senza sottolineare l’importanza del dono ricevuto è un modo per favorire il ‘flusso di coscienza’, che sarà doveroso non interrompere con giudizi – mai giudizi! – o con la manifestazione di emozioni che potrebbero contrastare con quelle di chi si sta aprendo a noi.

La consapevolezza del fatto che questo accade, che accade sempre, se solo si tratti come persona chi entra nella nostra casa, è ciò che mi fa dire quanto sia importante prestare fede alle parole dell’altro. Solo così potremo sceverare tra ciò che è caduco e ciò che ha un ‘fondamento’ di verità nella realtà dell’altro, nella sua condizione oggettiva, nella situazione che contraddistingue la sua esistenza, non importa se si tratti di un’esistenza spezzata, come preferisco dire io della condizione tossicomania.

Chi è stato accolto e ‘ascoltato’ tornerà, se avremo chiuso il colloquio lasciando qualcosa in sospeso, ogni volta una questione aperta, che lascerà l’altro in uno stato di sospensione punteggiato da un’ansia per cui dovrà cercare una risposta nel tempo. Senza pretendere mai che il tempo di un colloquio serva a ‘chiudere’ alcunché si contribuisce a generare l’attesa di un ‘seguito’ del ‘racconto’. L’offerta più grande non è da ricercare solo nell’orientamento verso programmi esterni: già l’accoglienza nel Centro di ascolto serve a far saggiare il valore della costruzione di una relazione umana che va a soddisfare bisogni di riconoscimento inespressi. La sensazione viva di ‘essere sempre in cammino’ indurrà l’altro a non spezzare il filo che incomincia a legarlo a noi.

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